E’ stata una cerimonia sentita e composta quella che ha dato, lunedì scorso a Tonco, l’ultimo addio a Lorenzo Monticone, il giornalista sportivo, morto sabato scorso a soli 38 anni.  In molti si sono stretti al padre Paolo, storico direttore de “La Nuova Provincia” e del “Corriere”, e alla madre Eugenia Sampietro, pronunciando parole di sincero affetto nei confronti di una famiglia che, unita, ha lottato contro una terribile malattia. Ma Lorenzo, collaboratore di molte testate locali, di “Tuttosport” e grande appassionato di giochi di squadra, non è riuscito a vincere la sua battaglia. In molti ricordano il giovane giornalista anche per essere stato uno dei fondatori dell’Oasi l’Organizzazione Astigiana Sviluppo Informatico. Sono stati tanti i messaggi di cordoglio, comparsi anche sulle pagine dei giornali locali. La nostra redazione lo vuole ricordare attraverso le parole di un amico e collega, Davide Cavagnero.
“Un giorno, Lorenzo è arrivato con un borsone azzurro, sformato e stracolmo. “Facciamo una squadra di tamburello”. Non era una domanda, ma una semplice constatazione. Lui avrebbe fatto una squadra di tamburello, e, se non l’idea non ti piaceva, in fondo, erano solo fatti tuoi.  “Una squadra di tamburello a muro”, aggiunse e questa piccola concessione alla curiosità avrebbe dovuto spegnere tutti i dubbi e vincere tutte le perplessità. Scrivendone, il tamburello per lui non era quel gioco inarrivabile e, vagamente iniziatico che appare nell’immaginario collettivo. Anche nel mio, per dire: tamburello, libero o a muro, tambass, palla a pugno, si confondevano nella percezione indistinta di una faccenda ristretta e quasi massonica che toccava il Piemonte e poche altre regioni del nord Italia. Una faccenda che, fino a quel momento, stava benissimo dove stava. In una nicchia, per veri intenditori, ma altrove. Mancavano solo i giocatori, perché Lorenzo aveva già fatto tutto il resto, con inaspettato anticipo, perché sulle questioni che gli premevano davvero non mancava mai una scadenza. Attingeva a un serbatoio umano fatto di amici, colleghi e conoscenti di amici, e tutti si prestavano. Dalla borsa blu, tirò fuori dei tamburelli e le palle con cui avremmo giocato (quelle soft, da tennis, depressurizzate, non i bolidi che si scaraventano contro i giocatori veri). E, quel pomeriggio, andammo ad allenarci: aveva anche pensato a questo. Quando era così, era difficile arginarlo. Le persone che riescono a stupirti sempre sono le più vere.
Non era un fenomeno. Nessuno di noi lo era. Però, sapeva come funzionava il gioco, sapeva le regole, sapeva, sulla carta, la tecnica, aveva accesso agli annali. Ma giocare era tutta un’altra storia. Lo capimmo subito: la prima partita era a Viarigi, nella piazzetta del Municipio, dove la facciata dell’edificio, con tutti i suoi difetti, era il “muro” che da la tara a questo sport, con l’irregolarità di spigoli e rimbalzi eletta a sistema. Il muro chiudeva, a diverse altezze, tre dei quattro lati della piazza. Ed era tutto valido. Non ci capimmo nulla. Solo per lui quella apparente negazione del buon senso, era uno sport eroico e vero e puro. E, per lui, una vera goduria. La nostra squadra ha giocato due campionati, occupando i mesi dolci del passaggio dalla primavera all’estate, esplorando tutti i comuni della provincia e affrontando anche la lunga trasferta a Trino, trovando un campo casalingo (senza muro) e pubblico, vincendo (poco) e perdendo (molto), calcando piazze dimenticate, affrontando muri curvilinei e tifo ostile (due signori di passaggio che scuotevano la testa), rischiando invasioni di zanzare, agganciando anche i play-off, con una formazione cangiante, dettata dagli impegni, dalla disponibilità e dalla voglia. Lorenzo c’era sempre, con un’inedita (ma non poi così tanto) costanza. Lorenzo ti chiamava a casa, mandava sms per la partita, richiamava, metteva la macchina e la sua capacità di orientamento per paesi tutti uguali. Non ho mai capito perché ci tenesse tanto. Avrei dovuto chiedere, perché lui, di suo, non me l’avrebbe mai detto”.