“Capita a tutti di provare dei dubbi di fronte a un’opera d’arte contemporanea. A volte è un pugno nello stomaco, altre volte non è stata neanche sfiorata dalla mano dell’artista che l’ha pensata, ed è stata realizzata interamente da altri. Ma l’opera d’arte, oggi, è finita?”. E’ partito da questa domanda del direttore dell’Accademia Albertina Guido Curto il prologo di Passepartout, mercoledì in Biblioteca, con l’intervento di Luca Beatrice sulla fine dell’opera d’arte.

Critico e curatore d’arte contemporanea, collaborare de Il Giornale e il settimanale Torino Sette (La Stampa), Beatrice ha di recente pubblicato per Rizzoli il libro “Pop – L’invenzione dell’artista come star”. E in un certo senso “pop” può dirsi la sua risposta alla questione posta da Curto: “Non lo so”.

“Sappiamo se è finita la politica, la musica, a che ora è la fine del mondo? Non sappiamo neanche quando finirà la crisi economica – ha detto Luca Beatrice -. Una volta si diceva che era morta la pittura, o il romanzo: in verità si stavano evolvendo, così come l’arte. Dalle avanguardie ormai digerite di Marcel Duchamp allo sviluppo della teoria del contesto, l’arte ha subito e subirà mutazioni genetiche, in una logica di evoluzione”.

Così l’interesse di Luca Beatrice si sposta dall’opera in sé all’artista. Più precisamente, agli artisti trend-setter, venditori di se stessi, divi contemporanei che hanno intuito e sfruttato il potenziale della società dello spettacolo per affermarsi e accrescere la propria popolarità. Irriverenti e un po’ veggenti, questi protagonisti della scena dell’arte hanno colto e alimentato lo spirito di un’era in cui diventavano importanti l’atteggiamento, il modo di vestirsi e le occasioni mondane a cui partecipare. Hanno deciso consapevolmente di gettarsi a capofitto nel mondo dei mass-media in controtendenza rispetto alla visione romantica che li voleva come figure pure e ispirate, incapaci di uscire dal proprio isolamento. Da Dalí, dandy bizzarro e dispotico, a Warhol, dallo sregolato Basquiat alle performance di Koons e Hirst fino a Cattelan, che a ogni intervento scatena feroci polemiche, a volte prima ancora di piazzare la propria opera.

Perché secondo Beatrice, la capacità di interagire con il proprio tempo è diventata per gli artisti un ingrediente fondamentale al pari del talento, della bravura, della capacità di cogliere un linguaggio universale, in un’epoca in cui anche il prezzo ha smesso di essere un indicatore attendibile della qualità dell’opera.
“Fare arte –  suggerisce Beatrice ai tanti che tra le mura dell’Accademia e fuori gli propongono le loro opere – è prima di tutto avvertire la necessità culturale di confrontarsi con un tempo”.

MN