New York, 1950: il 15 agosto, una giuria popolare composta da dodici uomini di diversa estrazione sociale, età e origini è chiusa in camera di consiglio per decidere il destino di un ragazzo portoricano accusato di parricidio. Devono raggiungere l’unanimità per mandarlo a morte, e sembrano convinti della sua colpevolezza. Tutti a eccezione di uno, che con meticolosità e intelligenza costringe gli altri giurati a ricostruire nel dettaglio i passaggi del processo e, grazie a una serie di deduzioni, ne incrina le certezze, insinuando il principio secondo il quale una condanna deve implicare la certezza del crimine al di là di ogni ragionevole dubbio. Fra violenti contrasti, dubbi, ripensamenti ed estenuanti discussioni, l’unanimità sarà raggiunta e l’imputato verrà dichiarato non colpevole.
Da questo dramma di Reginald Rose, che andrà in scena al Teatro Alfieri lunedì alle 21 diretto e interperato da Alessandro Gassman, fu tratto un celebre film di Sidney Lumet con Henry Fonda.
“La parola ai giurati (Dodici uomini arrabbiati)”, esempio straordinario di denuncia dei meccanismi del sistema giudiziario americano, è un banco di prova molto atteso per Gassman.
L’interesse per il lavoro di regia – scrive Gassman nella nota di regia – è stato per me un naturale approdo, dopo più di venti anni di teatro militante in qualità di attore. Man mano che le mie sicurezze interpretative andavano consolidandosi, sentivo emergere e gradualmente rafforzarsi il desiderio di affrontare un progetto interamente mio. Ero dunque pronto ad affrontare un percorso all’interno di motivazioni più profonde e personali che avrebbero potuto toccare il cuore e i sentimenti del pubblico; quel pubblico che fino a oggi mi ha seguito e mi ha regalato teatri esauriti e il calore del suo affetto. Dopo due stagioni di successi con la mia prima regia, con la quale ho affrontato un autore ed un testo estremamente complessi quali sono Bernhard e la sua “Forza dell’abitudine”, ho inteso proseguire la mia ricerca affrontando un testo socialmente coinvolgente e profondamente ideologico, nonostante il suo impianto realistico, come è “La parola ai giurati” di Reginald Rose. Così come Bernhard mi aveva ispirato uno spettacolo ricco di aperture oniriche di grottesca comicità, Rose mi permette invece di entrare nelle varie e sfaccettate tipologie umane e caratteriali colte in una situazione claustrofobica nella quale emergono gli aspetti comportamentali più contaddittori”.
Prosegue Gassman: “Ne “La parola ai giurati”, l’impianto drammaturgico si basa sullo svolgimento di un dramma giudiziario. Ma ciò che mi ha ispirato fin dalla prima lettura è la possibilità di portare alla luce i pregiudizi e le false certezze che caratterizzano il comportamento dei giurati e che affiorano nel momento in cui devono assolvere il compito più difficile per un uomo: quello di decidere della vita di un altro uomo. La vicenda è incentrata su due capisaldi del sistema giuridico anglosassone: la presunzione di innocenza e la dimostrabilità della sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. In un’epoca in cui il mondo è afflitto da ideologie contrastanti che si nutrono di assolutismo e che spesso scadono a pregiudizi, il “ragionevole dubbio” è una preziosa arma di difesa”.