Il cinema non è solo grandi star e registi autori, ma anche tanti mestieri affascinanti, a volte poco conosciuti: uno di questi è lo storyboard artist, diffuso soprattutto nelle grandi produzioni americane. L’astigiano Giacomo Ghiazza è uno dei più importanti disegnatori di storyboard, con una quarantina di film all’attivo in trent’anni di carriera. Dall’8 aprile al 17 settembre il museo Palazzo Mazzetti espone i suoi lavori nella mostra “Una matita astigiana a Hollywood” curata dallo storico del cinema Umberto Ferrari. Abbiamo rivolto qualche domanda a Giacomo Ghiazza. Che sensazioni prova questa volta a tornare ad Asti non solo per rivedere la sua città a venire a trovare gli amici, ma per essere celebrato in una mostra? Per me è innanzi tutto una grande emozione trovarmi qui per questo. Poi è un onore constatare che in Europa, e in Italia in particolare, c’è un diverso tipo di considerazione per questo tipo di lavoro: Negli Stati Uniti e a Hollywood, invece, si guarda tutto più sotto il profilo industriale, del business. In che cosa consiste esattamente uno storyboard e lei personalmente come adatta il suo stile all’estetica del cinema? Lo storyboard è in pratica la prima visione che il regista ha del suo film e rappresenta su carta le scene più complicate prima che vengano girate, in modo da poterne studiare in anticipo tutti i dettagli. È una specie di fumetto: ci sono pagine con delle vignette, ogni bozza è un fotogramma, il tutto corredato da scritte e da direzioni per indicare i movimenti della cinepresa. Il mio stile, anche per gli studi artistici che ho fatto, è leggermente diverso da quello dei colleghi americani; è più legato al disegno figurativo, mentre loro hanno un’estetica più stilizzata, da fumetto. Lei ha partecipato a saghe molto popolari: nelle produzioni seriali il suo compito risulta in qualche modo limitato o è facilitato? Entrambe le cose, in effetti. Ho lavorato a “Robocop 2”, e a diversi capitoli di “Mission: Impossible” con Tom Cruise, “Pirati dei Caraibi” con Johnny Depp, senza dimenticare il recente “Hunger Games”. Tutti strepitosi successi. Dovendosi attenere a qualcosa di preesistente il lavoro è semplificato, perché si deve seguire uno standard già avviato, d’altro canto si è più ingabbiati e non ci si può sbizzarrire con la fantasia. Invece in un film estremamente originale come “Vita di Pi”, a cui sono molto legato e che ha vinto quattro Oscar, la difficoltà era proprio nel restituire con carta e matita il mondo poetico del regista Ang Lee.