“Se vogliamo festeggiare l’ennesimo traguardo di questa storia, quella dell’anniversario dell’occupazione di via Allende, dobbiamo in primo luogo conoscerne i principali protagonisti, vale a dire le sei famiglie che da tre anni dimorano qui, e qui hanno la residenza. Dobbiamo pronunciare i loro nomi uno ad uno e ricordarci i volti e le espressioni, non solo le parole. L’onnipresente e generosissima Nadia, compagna di Abdellah, intellettuale assoggettato ai “moderni” dispositivi del lavoro salariato, la compagna del silenzioso Mouket, la signora Uiafa, vivacissima di parola e intenzioni, mussulmana convinta, con lei si può disputare l’esistenza di Dio, il cuoco/metalmeccanico Kouci, modesto e dignitoso, sempre disponibile, il manesco, spigolosamente estroverso, Jamal, Brahim il misterioso algerino, ex montatore di ponteggi, perennemente sotto pressione della compagna, la longilinea Sabrina, acculturata e pasticcera provetta, l’italiano Roberto ben amalgamato alla compagnia, capace di vedere il lato oscuro delle cose, e infine i bambini, sono tanti (12), tutti vivacissimi e variamente distribuiti con profitto nelle scuole del quartiere. Alcuni sono nati qui, il segno più vistoso dell’immanenza, si potrebbe dire, di cui si nutre questa storia. Tutte queste persone in carne ed ossa, non astratte categorie sociali, hanno ricomposto una domiciliarità andata dispersa per ragioni di mercato, insieme ai diritti che l’articolo 3 della Costituzione impone di tutelare. Una domiciliarità sacrificata a ragioni “superiori”, spesso di difficile attribuzione: al ministero della difesa, piuttosto che al governo, al neoliberismo piuttosto che ad una cultura ostile alla vita, oppure a poteri sovranazionali senza nessuna legittimazione democratica. Quando parliamo di domiciliarità non basta la parola. Il pensiero deve andare ad una situazione in cui i rapporti sociali e quelli familiari siano resi possibili e tutelati. Una situazione che abbia al centro un edificio/domicilio, senza essere solo quello. Vale a dire, il luogo della privacy, della tenerezza, del ritorno quotidiano, la riconoscibilità di una tranquilla consuetudine di scenari urbani, uomini e cose. Quanto basta per poter dire che la dignità e i bisogni di vita sono salvi. In via Allende questa domiciliarità ricomposta non è per sempre. Vorrebbe esserlo ma a dimostrarci il contrario ci sono i processi civili e penali dell’occupazione, c’è l’esclusione implicita, non necessariamente dichiarata, di un sistema sociale che riconosce solo i valori della possidenza; c’è una cultura giuridica ancora troppo abbracciata al diritto di proprietà. E’ su questo confine, tra bisogni di vita e interessi costituiti, che è nato il conflitto sociale; prima il contrasto degli sfratti, poi l’occupazione, infine l’autogestione di questo edificio di proprietà pubblica. E’ in questo conflitto che si è costituito il soggetto collettivo che ne è il protagonista: l’insieme dei singoli che chiamiamo con diversi nomi, declinazioni varie di un “noi” protagonista. Vale a dire le famiglie, gli irriducibili volontari dell’Associazione e i tanti, uomini e donne, che hanno partecipato momenti di impegno e di festa, che hanno voluto testimoniare e riconoscere, in più occasioni, la verità e le ragioni di questa storia. Questo soggetto collettivo continua ad opporre l’idea e la pratica di una società cooperante e solidale, ai pregiudizi, ai riflessi d’ordine, ai sentimenti ostili, ai cattivi pensieri di tutti coloro che per ragioni varie, vogliono lasciare le cose come stanno o hanno paura di cambiarle. Tra questi ultimi non ci sono solo le oligarchie o le corporazioni con solidi interessi economici e di potere, ci sono anche gli interlocutori istituzionali, la giunta comunale in primo luogo. Perché è alla presunta rappresentatività della giunta che è stata affidata, per delega, la tutela dei diritti di cittadinanza. Con questa giunta e segnatamente con l’assessore alle politiche sociali, il discorso è stato finora avaro di risultati pratici. E’ una giunta dialogante, che ha lasciato cadere il testimone della precedente, troppo pesante di conformismo e di xenofobia. Ma a ben vedere, tutto questo dialogare funziona come l’ennesimo dispositivo di assoggettamento allo statu quo. I soggetti “lavorati” sono in questo caso le famiglie. Un dispositivo che diventa ancora più efficace se i possibili esiti positivi del dialogo vengono negati da notarili elenchi di impossibilità (il patto di stabilità, il taglio dei finanziamenti, ecc) e da moniti contro l’opportunismo (la propensione all’assistenzialismo di alcuni, i propositi fraudolenti di altri e così via fino all’affacciarsi dell’idea, non nuova, che “chi è povero  colpa sua”). L’assessore respinge questo giudizio, insieme alle misure straordinarie che gli chiediamo di assumere: 1. le requisizioni degli edifici vuoti, pubblici o di proprietà delle banche, per sottrarli alla speculazione immobiliare; 2. il carattere “partecipato” di tali misure, vale a dire la valorizzazione del capitale di conoscenza e moralità implicito in storie di movimento come quella di cui stiamo parlando. La controprova, a parziale discarico delle sue buone intenzioni, è la moltiplicazione sul territorio nazionale (e in tutto l’occidente urbanizzato) di esperienze come questa, di storie come questa iniziata in via Allende, con un atto consapevole di “disubbidienza civile” o, ma il senso è lo stesso, con un atto di “obbedienza civile” al secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, il cui testo, a conclusione, riportiamo per intero: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Carlo Sottile per tutti i volontari del Coordinamento Asti-Est