Dicono di lui che non è solo un imprenditore, ma un artista che avrebbe avuto successo in qualsiasi campo si fosse misurato. Forse anche nella fotografia che – dice rispondendo al questionario proustiano di Sergio Miravalle – poteva essere il suo mestiere, non fosse stato un produttore.
Alla conferenza organizzata dal Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriale della Provincia di Asti e di Confindustria Alessandria, al polo universitario Astiss di lunedì scorso, Angelo Gaja si è rivelato soprattutto un personaggio generoso. Uno che con ritmo incalzate ha elencato per oltre un’ora un’antologia di storie e personaggi, una visione imprenditoriale che è anche una visione del mondo.
Un narratore anche, che sceglie la forma del racconto breve, di molti racconti brevi in verità, per costruire un cosmo a metà strada tra il case history bocconiano e una bella epica langarola.

“Faccio questo mestiere da 51 anni. Adesso che ne ho 72 e non ho nessuna intenzione di andare in pensione posso dare degli esempi, educare i miei figli a coltivare la passione per un progetto che può avere successo oppure no, ma da proteggere, in modo che resti incontaminato dai fatti della vita”.

Parte da Stalin, dalle terre di Georgia e Moldavia così vocate alla viticoltura ma condannate dagli apparati del kolchoz a produrre vini di qualità mediocre per soddisfare le richieste del mercato interno.
Dagli artigiani, animati dalle idee, custodi a volte testardi a volte folli di un progetto che è il vero lievito per la crescita della qualità.
Parla di Madoff e del crack Lehman Brothers, dell’Europa, che solo unendosi politicamente può fronteggiare le conseguenze di una crisi che rischia di far pagare il conto soprattutto alle classi meno abbienti.
“Nei primi mesi del 2009 gli ordini si arrestarono del tutto. Ricordo Aldo Conterno, di Monforte, che mi disse che durante la crisi avevano smesso di comprare persino i clienti che normalmente non pagavano”.
Ma il vino ha tenuto. Questo prodotto naturale nato 9000 anni fa e il cui processo biologico si ripete nello stesso modo da sempre, adesso oltre che una bevanda alimentare è anche un bene voluttuario in grado di gratificare il consumatore, un bene di lusso.
C’è modo di ripercorrere la storia del mancato accordo con Robert Mondavi, le dimensioni orgogliosamente ridotte di Gaja (350mila bottiglie l’anno, una dozzina di vini, 100 ettari di proprietà oggi come negli anni Ottanta) che gli consentono di sentirsi ancora un artigiano, il genio di Robert Parker, che smise di usare parole auliche per descrivere i vini e iniziò a valutarli a punti, da 50 a 100, allargando di fatto la base dei consumatori (soprattutto americani) non più intimiditi.
Gaja omaggia Paolo Desana che progettò la definizione di un assetto legislativo necessario. Il lavoro di Piero Antinori e Giacomo Tachis sul vino Tignanello; Veronelli, che lavora per la credibilità del vino italiano, e Petrini, Massobrio, Farinetti; parla di Cavour e di Einaudi del loro rigore morale, della generosità, della loro fondamentale impronta liberista; riconosce il debito del suo territorio verso la letteratura, e cita Pavese, e legge una pagina di Fenoglio per arrivare a dire con Aldo Cazzullo: “Sono anche un po’ figli di puttana, questi Langhetti”. Ricorda Renato Ratti, Giacomo Bologna che subito dopo lo scandalo del metanolo  per un mese intero comprò una pagina di giornale scrivendo solo “Viva la Barbera”, senza una firma, senza un logo. Ricorda Arturo Bersano e Domenico Clerico ed Elio Altare.  Come altri imprenditori della sua generazione sembra aver vissuto molte vite e averle condensate tutte in un tratto distintivo del carattere, che nel caso di Angelo Gaja è un ottimismo che lui stesso giudica esagerato, quasi un difetto.
Eppure, l’ottimista Gaja consiglia ai giovani di imparare l’inglese, di fare pace con il pensiero che questo momento difficile non terminerà a breve e forse sarà il caso di guardare all’estero, alla stessa Europa, e provare a coltivare la propria passione imprenditoriale oltre confine.

Marianna Natale