Il Piemonte torna all’antico, alla ripartizione del territorio regionale in sei province: la città metropolitana di Torino, Alessandria, Cuneo, Novara che accorpa il verbano e due sorprese: una provincia di Vercelli-Biella (in pratica la vecchia provincia di Vercelli) e il mantenimento della provincia di Asti. Una decisione per certi versi clamorosa, che sconfessa la proposta del CAL, l’estemporaneo Comitato per le Autonomie Locali, che tutto ha fatto tranne tutelare quelle autonomie che era chiamato a rappresentare. L’accorpamento di Vercelli e Biella può quasi considerarsi una “furbata”: insieme, i due territori superano entrambi i requisiti fissati dal governo Monti: 350.000 abitanti (ne assommano 359.270) e 3.000 kmq di superficie (3.006,80). La “salvezza” di Asti è invece una deroga bella e buona: un modo per non mortificare il nostro territorio che altrimenti sarebbe stato di fatto l’unica provincia “storica” del Piemonte a perire sotto la scure montiana. E’ la chiara vittoria di quel movimento trasversale che negli ultimi mesi è montato contro un accorpamento che veniva percepito profondamente ingiusto non solo da politici e amministratori ma dal comune sentore della maggior parte degli astigiani, che mal digerivano l’assorbimento da parte dei non troppo amati cugini “mandrogni”. Una vera e propria “marea” capeggiata dalle due consigliere regionali Angela Motta (Pd) e Rosanna Valle (Progett’azione) da cui è partito un emendamento alla pratica di riordino delle Province, la divisione della Regione in quattro quadranti.  Motta e Valle proponevano infatti il mantenimento della provincia di Asti “come già costituita e quindi con il mantenimento complessivo degli attuali confini della Provincia”. Un “prendere o lasciare” a cui il consiglio regionale non ha saputo dire “no”: l’emendamento è infatti passato con 30 voti favorevoli e la pratica, che inizialmente prevedeva la suddivisione della Regione in 5 quadranti (di Vercelli-Biella già si proponeva lo scorporo da novarese e verbano) , non poteva non tenerne conto. Si va dunque alla votazione sulla pratica emendata, con 6 province e non più 5. Passa con 19 voti favorevoli, 11 astensioni (il centro sinistra), solo tre contrari (l’Italia dei Valori). Ora la palla passa al Governo, che in base all’articolo 17 della legge sulla razionalizzazione della spesa (la spending review) aveva chiesto l’invio di una proposta di riordino da parte delle Regioni. Ora, a rigor di logica, non potrà non tenerne conto, anche se il ministro della pubblica amministrazione Patroni Griffi, sembra sempre più determinato a tagliare quante più province possibile, senza guardare troppo per il sottile. Dovrà però fare i conti con i tanti parlamentari locali, investiti di chiari mandati dalle loro comunità, tanto che già si ipotizza un insabbiamento della riforma. Un percorso a ostacoli che avrà una tappa importante il 6 novembre: la pronuncia della Corte Costituzionale sui molti ricorsi presentati dalle amministrazioni locali di tutta Italia contro la soppressione delle province. Sarà uno snodo fondamentale, in caso di pronuncia favorevole ai ricorrenti, il Governo sarà costretto a rivedere l’intero impianto della riforma. Massimiliano Bianco