La solitudine degli anziani e come superarla
Una larga fascia della popolazione dei Paesi sviluppati, fra cui l’Italia, è longeva. Se fino a qualche decennio fa parlare di “bomba demografica” significava esclusivamente fare riferimento all’esplosione demografica dei Paesi “sottosviluppati”, oggi questa definizione viene sempre più spesso applicata, nei Paesi ricchi, all’espansione rapida ed irreversibile del fenomeno “vecchiaia”. Si è verificato insomma un vero e proprio “boom” degli anziani da ricercarsi nel positivo progresso della scienza medica, della sanità ed anche del livello di istruzione nella popolazione.
È aumentata quella che i sociologi definiscono “speranza di vita alla nascita” che all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso era di poco superiore ai 65 anni mentre oggi supera gli 80. Si parla quindi ormai non solo di ‘terza età’ ma più spesso di ‘quarta età’, divenuta quest’ultima non solo fatto personale o famigliare, ma anche responsabilità di tutta la collettività, imponendo alla società attenzioni e obblighi. È cambiata infatti la conformazione del tessuto sociale.
Oggi è tipico il modello della famiglia “nucleare” che ha come immediata conseguenza la richiesta di un maggior impegno del sociale nel garantire l’esistenza dignitosa ed il sostentamento degli anziani. Ciò che nella famiglia “patriarcale”, costituita da genitori e figli conviventi con prole, era infatti praticamente assolto dalla comunità famigliare stessa in cui l’anziano godeva, in genere, di una posizione di prestigio, oggi viene, e verrà sempre più in futuro, demandato alla collettività ed alle sue istituzioni come pensionati, case di riposo, centri per anziani, ospedali geriatrici, assistenza sociale a domicilio…
Certo non è da credere che la coabitazione tra persone diverse per età, spesso creata per necessità e non per scelta, fosse in passato priva di incomprensioni, ma forse si attenuava quel senso di solitudine tanto più avvertito oggi, ad esempio con la morte del compagno/a di vita, laddove i figli sono lontani o proprio non ce ne sono.
E il tema della solitudine, di cui tanto si parla, interessa non solo coloro che, non più autosufficienti parzialmente o totalmente, sono presi in carico da strutture adeguate, ma anche persone che ritiratisi dalla vita lavorativa, non avendo forse coltivato amicizie, non essendosi create occasioni di socializzazione, si ritrovano a sperimentare un senso di inutilità, accettando con rassegnazione, quasi giustificandola, una condizione di isolamento. Ma è a questo punto che, grazie a opportune segnalazioni, possono entrare in gioco gruppi di volontari, reti parrocchiali, centri culturali. Occorrono certo persone dal carattere aperto che, con delicata presenza, possono tuttavia fare molto, ridando sorriso e fiducia, soprattutto con il dialogo, e ancor più con un attento ascolto.
Io vengo da un impegno come volontaria in Case di Riposo e Comunità Terapeutiche iniziato più di mezzo secolo fa, dapprima con i miei allievi del “Quintino Sella” e in seguito con amici di varie età che ho riunito intorno a me fino a costituire un’associazione. E quanti progetti abbiamo realizzato, quanti pomeriggi fatti di confidenze e allegre risate, quante feste in maschera recando buffi travestimenti per tutti! E sì perché la solitudine, va ricordato, si vince anche intonando insieme canzoni di Festival lontani, accompagnati da una fisarmonica, o vedendo immagini di città magari visitate… in viaggio di nozze! Ma ho anche ascoltato tante storie di vita, ho confortato e asciugato lacrime di chi non vedeva i propri cari da mesi, alcuni da anni, di altri affidati a tutori lontani, indifferenti. Ho visto spuntare famigliari dopo che il proprio congiunto, che tanto ne aveva desiderato la presenza, non era più, desiderosi solo di avere notizie di eventuali lasciti. E queste sono le storie più dolorose, momenti che certamente non avrei voluto vivere.
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Patrizia Meumann Porcellana