Giurista di primo piano e uomo delle istituzioni, Giovanni Maria Flick è una delle voci più autorevoli del dibattito pubblico italiano quando si parla di diritti, giustizia e legalità. Ministro della Giustizia nel primo Governo Prodi (1996), giudice della Corte costituzionale dal 2000 e suo presidente tra il 2008 e il 2009, oggi è professore emerito di Diritto Penale alla Luiss di Roma.
Lo abbiamo intervistato per un commento sul decreto sicurezza, poi convertito in legge, una delle misure più discusse dell’attuale stagione politica: Flick – anche confrontandosi con l’avvocato Damiano Francesco Pujia, suo collaboratore e con il quale negli ultimi anni si sta occupando con particolare attenzione del problema carcerario – ne analizza limiti, contraddizioni e implicazioni costituzionali, ponendo al centro la questione fondamentale della dignità della persona.
Professore, in un suo intervento proprio sul tema, ha parlato di un “autoritarismo privo di logica” che segna questo decreto di legge. Cosa si intende con questa espressione?
“Stiamo assistendo negli ultimi tre anni a una proliferazione incontrollata di nuovi reati e aggravanti introdotti al fine di rispondere a contingenze quotidiane e a fatti divenuti di dominio pubblico per via della narrazione mediatica. Chi propone questa idea di politica criminale afferma di voler intervenire su fenomeni particolarmente allarmanti e percepiti come tali dalla collettività. In realtà si sfruttano le tensioni morali del momento per convenienza elettorale e si alimenta la percezione di insicurezza sociale. Si suggerisce la soluzione a un problema costruito e presentato come tale dalle stesse fazioni politiche: la sicurezza pubblica costi quel che costi come contrasto all’esistenza stessa di intere categorie di individui pericolosi. La politica criminale si trasforma in politica dell’intimidazione. Non è un problema del solo tempo attuale, ma è evidente che per l’attuale Governo prevale la natura simbolica dell’intervento penale. Il decreto sicurezza – che è intervenuto a gamba tesa sul dibattito parlamentare relativo al disegno di legge omonimo – dimostra una visione autoritaria dei rapporti fra Stato e cittadino”.
Lei sostiene che il decreto ignori completamente il sovraffollamento carcerario e non preveda alcun miglioramento delle condizioni di detenzione. In che modo questo contrasta con l’articolo 27 della Costituzione?
“Il decreto sicurezza non solo ignora il problema del sovraffollamento carcerario; rischia al contrario di aggravarlo. Il disinteresse verso i problemi della popolazione carceraria è ormai una nota costante. Il discorso pubblico e politico ripropone il mantra delle caserme in disuso; la proposta provocatoria di esternalizzare l’esecuzione della pena al di fuori del territorio italiano; o persino quella della costruzione di nuovi “moduli carcerari” che servirebbero a superare il sovraffollamento. Ma il problema è costituito dalla natura della punizione della reclusione che dovrebbe imporre una riflessione più ampia. Il carcere rimane un problema a intermittenza, di cui discutere quando avvengano fatti cui consegua una particolare eco mediatica o quando intervenga drasticamente la pronuncia di un organo giurisdizionale. La privazione della libertà personale compromette le componenti fondamentali dello sviluppo della personalità: la relazione con gli altri, che rende l’individuo persona; il contesto spaziale, che rende concreta l’attuazione di quella relazione; il contesto temporale, che consente la speranza nel futuro, oltre al ricordo del passato”.
Ha criticato la penalizzazione della resistenza passiva, sia per i detenuti che per i migranti. È un segnale di criminalizzazione del dissenso?
“Sì, ed è molto rischioso. La risposta al disagio manifestato dalla popolazione carceraria e dai migranti trattenuti si sostanzia nella minaccia penale e nell’esclusione dei benefici penitenziari. Si penalizza la mancata esecuzione di un ordine, ossia la disobbedienza. Sul punto è particolarmente calzante il titolo dato dall’associazione Antigone al suo nuovo rapporto sulle carceri recentemente pubblicato: “Senza respiro”. Sembra prevalere la logica del premio e della punizione su cui si basava in passato il regolamento penitenziario del 1931. Si vuole ottenere l’adesione al percorso trattamentale del detenuto in modo coattivo: ma un consenso ottenuto attraverso la minaccia penale non è pieno e non si discosta molto da un rifiuto espresso. È singolare notare come il Governo cerchi poi di sviluppare progetti – in astratto meritori – di inserimento lavorativo e culturali in carcere. Come è possibile però condurre la persona a riscattarsi se non si rispetta anzitutto la sua dignità?
V’è da dire che in questo caso detenuti e migranti non sono da soli: il decreto sicurezza punisce la disobbedienza anche fuori dal carcere con la penalizzazione del blocco “personale” stradale e ferroviario”.
L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 13 giugno 2023
Cristiana Luongo