Tre domande a… Jacopo Perosino
Tre domande a
All’autore abbiamo fatto qualche domanda capire i meccanismi di questo “monologo da pullman” nel quale si mettono a confronto due generazioni, un flusso di pensieri e ricordi che si susseguono apparentemente senza un rigore logico, confrontandosi e ignorandosi proprio come le persone che quotidianamente salgono e scendono dai bus.
Come hai trovato l’ispirazione per questo testo?
“Sono contento che sia la tua prima domanda, perché mi permette di dissipare molto vociare a riguardo. Gli spunti del testo sono molto autobiografici, gli eventi, la vicenda e le riflessioni in parallelo, che personalmente ritengo le parti più interessanti, sono frutto della mia fantasia. Nel monologo ho riversato il prodotto di anni di riflessioni, dubbi, domande che mi hanno colto come ragazzo, come studente, come figlio e che stanno contribuendo a fare di me l’uomo che sarò. Nel dettaglio, ho scritto il testo di getto, in un periodo che definirei buio. Un mese nel quale la mia terapia è stata la scrittura, per la felicità del mio mancato psicologo. L’idea di scrivere qualcosa ambientato sul bus 68 di Torino, che intrecci le storie che lo abitano, mi frullava dal primo anno di università”.
Dove ti sei documentato per quanto riguarda la parte più strettamente “sessantottina” del testo?
Per rispondere a questa domanda mi permetto di riportare un commento che ho ricevuto dopo l’esordio ad Asti teatro 35. Una signora, a suo dire estasiata dallo spettacolo, mi dice: “ma come fai, così giovane, ad avere un’idea su cosa sia stato il sessantotto? Io c’ero. Tu lo descrivi come un fallimento…” prende fiato “Ma forse hai ragione.” Mi ha abbracciato ed è andata via. In sintesi, mi sono basato sui racconti e soprattutto sugli scritti che ho trovato scartabellando in giro (es. alcuni saggi di Mario Capanna). Ho voluto esse rispettoso della storia senza dimenticare di lasciar sfogare la penna.
Qual è stato il fattore chiave che ha consentito a questo spettacolo di vincere il concorso del Manhattan secondo te?
“Non ho ancora capito se lo spettacolo abbia davvero il potenziale che io e Gianvi (l’interprete) ci auguriamo. Siamo grati al Manhattan e ci teniamo a non deludere la loro fiducia, così come stiamo aspettando ulteriori riscontri per farlo girare. Abbiamo ricevuto, va da sé, porte chiuse in altri eventi molto interessanti. A ogni buon conto parlerei di due fattori chiave: le molteplici chiavi di lettura del testo e la straordinaria bravura e sensibilità di Gianvincenzo nell’interpretarlo. Andare a Roma ci dà un’adrenalina enorme, consci dei nostri limiti, è un’avventura che siamo onorati di poter avere insieme”.
Dopo questo riscontro, Jacopo si augura di poter scrivere ancora. “Scrivere è la mia vita – dice – Può sembrare una banalità. Chi mi conosce sa che non potrei farne a meno. Lo dico a fronte di un lavoro, il mio attuale, che nulla a che fare con la scrittura. La mia vita però è permeata di cose scritte: racconti, canzoni, articoli e ora testi teatrali. “Figli del 68″ è, a oggi, il mio primo e unico lavoro autoriale in teatro. Mi sta emozionando e non escludo che rimanga un’esperienza isolata, anche se adesso le mie energie sono indirizzate a due obiettivi: il progetto musicale con i Noàis e la pubblicazione del monologo. Colgo l’occasione dell’intervista per fare pubblicità al fatto che sto avendo contatti con case editrici per pubblicarlo ma la cosa appare più difficile del previsto quindi, qualora ci fossero degli interessati, sarei lieto di sottoporre loro il testo”.
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