Tre domande a Simone Varisco
In occasione della presentazione del Rapporto Immigrazione 2025 di Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, abbiamo intervistato Simone Varisco: storico, ricercatore, saggista, fondatore e responsabile di una scuola di italiano per stranieri e, da otto anni, curatore del volume.
Con lui abbiamo approfondito alcuni aspetti emersi dal Rapporto, che racconta un’Italia in trasformazione e offre uno sguardo prezioso sulle nuove generazioni di origine straniera.
Nel Rapporto si parla dei giovani di origine straniera come “testimoni di speranza”. Qual è il cambiamento più significativo che stanno portando nell’Italia di oggi?
“Direi che il luogo in cui questo cambiamento è più visibile è la scuola, che riflette bene il Paese. Anche tra gli stranieri il numero dei nuovi nati sta diminuendo: un segno che le famiglie si stanno adeguando ai modelli italiani ed europei. A scuola, soprattutto tra i neoarrivati, emergono difficoltà linguistiche e di adattamento ai metodi di studio, con un rischio maggiore di ritardi e abbandoni. Allo stesso tempo, però, c’è una forte resilienza: le seconde generazioni, e spesso anche i neoarrivati, mostrano una grande volontà di farcela. Lo confermano i dati Invalsi: chi resta nel sistema scolastico, nonostante le difficoltà iniziali, consegue alla fine risultati persino migliori dei coetanei italiani.
Questo è decisivo, perché i giovani di oggi saranno i lavoratori di domani. Potremmo finalmente superare l’idea della manodopera straniera come forza lavoro non qualificata e iniziare a valorizzare le tante potenzialità – spesso sprecate – di questi ragazzi, permettendo loro di contribuire al Paese non solo nei lavori più faticosi o sottopagati, ma anche nei settori altamente formati. Già ora si vede una maggiore presenza nei licei e negli istituti tecnici, percorsi che aprono la strada all’università e alle professioni qualificate. Se sapremo valorizzare queste energie, l’Italia ne trarrà un enorme beneficio”.
Dal vostro lavoro emerge più l’urgenza di nuove politiche di inclusione o la necessità di un cambiamento culturale?
“Sono due piani strettamente legati. Serve un lavoro educativo che valorizzi la partecipazione reciproca. Negli anni abbiamo attraversato molte “stagioni” terminologiche: integrazione, inclusione… Oggi proponiamo il concetto di partecipazione, che implica uno scambio reale tra le parti. Educazione e politiche devono procedere insieme: riconoscimento dei titoli di studio, sostegno alle famiglie, apprendimento della lingua italiana, educazione alla cittadinanza, sport come palestra di convivenza. Resta poi il tema della riforma della cittadinanza, ferma al 1992. L’immigrazione è spesso trattata in modo ideologico, mentre potrebbe diventare un terreno bipartisan: l’Italia ha bisogno di questi giovani e della loro voglia di contribuire. Sono qui, hanno desiderio di partecipare e di costruire il proprio futuro nel nostro Paese. A volte, è vero, qualcuno parte una volta ottenuta la cittadinanza – così come fanno anche molti giovani italiani – ma se sapremo valorizzarli, dopo averli formati al meglio, ne trarrà beneficio l’intera collettività”.
Il Rapporto parla delle comunità come “laboratori di dialogo e cittadinanza”. Quali esempi virtuosi avete osservato e cosa potrebbe fare una città come Asti?
“In Italia esistono molte esperienze positive, grazie soprattutto al terzo settore e al lavoro delle diocesi, degli uffici Migrantes e delle Caritas. Una città di medie dimensioni come Asti può continuare a investire sul senso di comunità, creando spazi e occasioni di partecipazione reale.
Spesso i giovani – italiani e stranieri – non vengono coinvolti né raccontati. I dati dell’Associazione Carta di Roma e dell’Osservatorio di Pavia mostrano che le notizie sui giovani stranieri rappresentano appena l’1,5% del totale. Renderli visibili, valorizzarli, ascoltarli e includerli nei percorsi comunitari, sarebbe già un grande passo avanti per costruire una cittadinanza condivisa”.
Cristiana Luongo