“Le occupazioni di edifici abbandonati, da parte di sfrattati e senza casa, sono state una esperienza che si è moltiplicata su tutto il territorio nazionale, come indiretta conseguenza del diffondersi della precarietà e dell’accrescersi delle disuguaglianze. Ma anche per il parallelo venir meno di una politica della casa che aveva i suoi capisaldi nell’equo canone e nella edilizia residenziale pubblica. Un problema sociale, che nessuna autorità di governo, nazionale o locale, ha voluto riconoscere come tale, rinchiuso e privato di senso nel recinto dell’illegalità, reinterpretato come l’oggetto di attività securitarie, oppure filantropiche e di riduzione del danno. Solo i pochi che hanno voluto vedere, hanno riconosciuto in quella esperienza i diversi aspetti di una società, quella presente, privata di una cultura dei diritti e abbandonata ai demoni del mercato. E vi hanno letto il tentativo di ricomporre la trama di una morale laica, di un interesse pubblico, di una costrutto urbano che conferisse diritti ai suoi abitanti. Ora, il fatto che un ministro della Repubblica riproponga quella esperienza come questione nazionale, proprio nel momento del suo estenuarsi, Del suo esaurirsi in mille episodi slegati tra loro e qualche volta irriconoscibili, nella loro perfetta adesione ai valori e ai sentimenti dominanti, offre l’occasione per un esame degli esiti più recenti e meno osservati di quella stessa esperienza e li conferma, come vedremo, come preliminari di una politica di controllo sociale di lunga lena. Il tentativo di ricondurre il bisogno abitativo ad un diritto e il diritto di proprietà nei limiti costituzionali (art.41 e 42), incarnato in una libera, responsabile e pubblica disobbedienza di alcune norme di legge, per tradursi in azione di riforma sociale, aveva bisogno di costituirsi in “movimento” e, attraverso quello e le sue azioni, essere riconosciuto con l’identità di un soggetto politico. Con la grande manifestazione di Roma del 19 0ttobre 2013 (Assediamo i ministeri, Casa, reddito, dignità) quel soggetto si è annunciato e subito dopo si è dissolto, nelle singole realtà territoriali (il Coordinamento ad Asti). Il tentativo dunque è fallito, ma non per questo è stato meno legittimo. Inoltre, le singole soggettività non sono morte e al fondo del processo sociale in cui tuttora si muovono, l’ambivalenza dei possibili sviluppi rimane tutta intera. Quel “noi”, ricostruito strappando alla solitudine sociale migliaia di persone e famiglie, non poteva misurarsi in un rapporto solo dialogico con le istituzioni. Per farlo, senza cadere nel mare delle chiacchiere inconcludenti, avrebbe dovuto possedere i requisiti dell’uguaglianza, proprio quei requisiti che andava cercando con le sue azioni: il contrasto degli sfratti, le occupazioni, le iniziative pubbliche “aperte alla città”. In termini più formali, quel “noi” è stato, per anni, alla ricerca di interlocutori capaci di distinguere tra legalità e legittimità, tra un diritto, quello alla casa, che l’art. 3 della Costituzione sussume, e le modalità scelte per interpretarlo. “Azioni a vocazione costituente” è stato detto più volte, con riferimento a quell’articolo. “Le occupazioni non sono bivacchi” si diceva, ma luoghi di ricostruzione della domiciliarità, vale a dire delle condizioni minime di una vita dignitosa. “Le occupazioni non sono una presa di possesso” ma l’uso sociale di edifici altrimenti abbandonati alla speculazione immobiliare. Quelle affermazioni implicavano una pedagogia e delle regole di autogoverno, che infatti c’erano. Tutti erano impegnati a partecipare le azioni pubbliche, tutti erano impegnati a sottoscrivere e applicare un “Regolamento delle occupazioni”, che infatti c’era e prefigurava una “normalità” da venire (fitto proporzionale al reddito). Ora, mentre un edificio vuoto e abbandonato all’ingiuria del tempo, può conservare a lungo il suo valore mercantile, soprattutto quando assume la forma di titoli di credito di un fondo immobiliare, non è così per i valori culturali e sociali di una esperienza, come quella delle occupazioni, tenuta nel recinto della illegalità per anni e costantemente esposta ai dispositivi di assoggettamento del potere dominante. Quali dispositivi ? Quelli venuti alla luce del sole per errore, come ammesso dallo stesso ministro degli Interni, con gli ultimi sgomberi di Roma. Vale a dire, la violenza di Stato come extrema ratio, e poi dichiarazioni di illegalità ad ogni occasione, ben oltre quelle dei processi (con i giudici qualche volta giustamente esitanti sulla volontà di delinquere degli occupanti) e infine le pratiche, di lungo periodo, della “moderna” filantropia (vedi Roma capitale), insieme a quelle più propriamente istituzionali come i bandi (per l’assegnazione di case popolari che non esistono), le graduatorie (con criteri sempre più escludenti), le borse lavoro (che incattiviscono gli esclusi), infine la gestione dell’emergenza (di cui non si annuncia mai la fine) che in ultimo ha avuto come corollario la legge 80/2014, quella che mette fine alla edilizia residenziale pubblica, criminalizza la povertà (con l’art.5 nega la residenza e l’allacciamento delle utenze alle famigie che occupano) e garantisce un flusso di denaro pubblico nelle tasche di proprietari e costruttori. Le finalità dichiarate di queste pratiche sono totalmente fuorvianti, infatti non si realizzano mai. Quella vera è occultata in una pletora di procedure, flessibili e tanto più referenziali quanto maggiore è la precarietà delle vite su cui si esercitano. Semplificando, cancellare ogni idea di diritto, sciogliere qualunque “noi” che avesse il proposito di rivendicarlo, sterilizzare il conflitto sociale di quelli che “stanno sotto”, impedire che i demoni del mercato siano messi in gabbia. Le mutazioni indotte da queste pratiche, nelle relazioni di quel “noi” privato alla fine di ogni interlocutore, non sono mancate. In assenza della vita sperata e inseguita per così lungo tempo, la possibilità di una vita “conforme” è stata una tentazione irresistibile; un appello a rompere le righe del “noi” che ha avuto successo. L’opportunismo e il cinismo, vale a dire i sentimenti delle forme di vita oggi dominanti, hanno potuto convivere con quelli della domiciliarità ricostruita. Lo spacciatore o l’occupante abusivo, hanno potuto convivere con le famiglie, il bivacco occasionale è stato vicino ai luoghi del focolare, del ritorno, del riconoscersi, delle nascite, dell’accudire. Le narrazioni pubbliche che hanno ripreso slancio in questi giorni, si sono ben guardati dal cogliere questa ambivalenza, l’hanno semplicemente cancellata. Una disgustosa e irricevibile manipolazione della verità, così che le occupazioni e la loro storia fossero ridotte ad una propedeutica del crimine, lo spaccio, la mafia, e paradossalmente il fare mercato. Chi avrebbe potuto coglierla, questa ambivalenza e tentare di scioglierla ? Vien da dire, la sinistra politica, ma sarebbe un errore perché proprio quella sinistra, di governo e radicale, si è prodigata nel far funzionare i dispositivi di cui si è detto. La conclusione di chi scrive non è una dichiarazione di impotenza o la constatazione di una esperienza conclusa. Non sta scritto da nessuna parte che il conflitto sociale e le disuguaglianze si possono risolvere solo in comportamenti “conformi” o, in altri termini, che la solitudine sociale, l’esclusione e l’infelicità, si possono risolvere solo nell’irrilevanza e nella guerra tra poveri. La tentazione del “noi” libero e consapevole, è sempre presente, sia nei processi sociali in corso, che nella coscienza dei singoli”.
Per il Coordinamento Asti-Est Gullino, Piccinini, Clemente, Sottile