Era tutto scritto in un articolo comparso sull’edizione astigiana de La Stampa il 29 gennaio 1989. Intervistato da Sergio Miravalle, il vicario generale Guglielmo Visconti ammoniva: “Si dovrà passare da una diocesi abituata da oltre un secolo a contare più di 200 sacerdoti a una con circa 50 preti”. All’epoca la svolta non sembrava così imminente, ma si paventava comunque inevitabile, per via del numero già esiguo delle vocazioni, unito all’anzianità di circa 155 componenti del clero.

“Ragioniamo sui numeri – dice oggi il vescovo di Asti, Marco Prastaro -: nel 1970 la nostra diocesi contava 217 preti. Nel 1980 si erano già ridotti a 173; nel 1990 erano diventati 160; nel 200 c’erano 123 preti e nel 2010 si è arrivati a contarne 90. Nel 2020 avevamo 68 preti. Oggi, due anni dopo, sono 63 e di questi 13 sono in pensione; ben 24 hanno sono quelli che hanno più di 70 anni. Questa è la realtà che ci sta travolgendo. Lo sapevamo, ma non volevamo crederci”.

I numeri dunque hanno dettato la scelta della riorganizzazione della nostra diocesi…

“Tutto nasce dal fatto che alcuni sacerdoti più anziani hanno chiesto di andare in pensione. Altri invece volevano fare nuove esperienze. Sono richieste lecite, che dovevo accogliere. Poi c’è certamente il fattore matematico: ogni spostamento è complicato, perché si devono esaminare le caratteristiche delle persone. C’è chi è più adatto a guidare una parrocchia in città, chi fuori città, chi è da paese grande, chi da paese piccolo. Poi ci sono altre circostanze che hanno portato alla mia proposta. Si deve tenere conto che già monsignor Ravinale aveva fatto una riflessione sulla necessità di una riorganizzazione, anche con l’idea di unificare alcune parrocchie, come per Cisterna e Ferrere e come per il Pianalto.

Un altro tema importante è che non si può più identificare la Chiesa con i preti: Chiesa sono anche le comunità”.

Cosa risponde a chi, con raccolte firme o veri e propri picchetti, ha cercato di difendere lo status quo?

“Sono certo che le divisioni si possano ricomporre. Le reazioni sono state diverse, e questo è un fatto del tutto naturale. Rappresentano in fondo l’espressione di un affetto che lega le comunità ai sacerdoti. Quando è uscita la notizia degli spostamenti, molti parroci avevano già parlato dell’eventualità con i fedeli, a volte, a quanto mi dicono, avevano paventato il cambiamento per anni. Ma le persone non ci credevano; la realtà va più veloce della nostra capacità di comprendere. Per questo molti si sono ritrovati spaventati e sorpresi. È sempre difficile gestire il mutamento”.

Qual è oggi il volto della diocesi?

“Ci sono luoghi in cui il laicato ha camminato più veloce. Sono quelli forse che hanno pagato il prezzo più alto in questo frangente. In alcune realtà sono presenti associazioni che hanno carisma: operano nel campo della formazione, del sostegno alla vita parrocchiale, come l’Azione Cattolica e gli scout. Sono un forte elemento su cui si incardina il nostro futuro. Gli accorpamenti sono avvenuti dove già da anni si lavorava su linee comuni, come nel Pianalto. Sulla città invece, come è emerso dai gruppi sinodali, c’era bisogno di maggiori stimoli. La provincia è più attiva e innovativa della città. Ma il nostro resta, nel complesso, un territorio variegato, con una pluralità di soluzioni da pensare, di strategie differenti da adottare. Esiste una seria preoccupazione che riguarda la sopravvivenza della Chiesa sul territorio. Sono 81 le parrocchie senza un parroco residente oggi: rappresentano due terzi della Diocesi, anche se accorpano un terzo della popolazione. Le chiese si svuotano,il cambiamento culturale è dirompente. Il numero delle persone che vengono a messa diminuisce, e la fascia di età tra i 30 e i 50 anni è oggi la grande assente. In più, non nascono più bambini”. 

L’intervista completa e ulteriori approfondimenti sul cambio dei parroci in numerose parrocchie della diocesi sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 5 agosto 2022

Marianna Natale