Estate 1988. Marco Drago studia lingue a Genova, dove vive con l’amata Ale. Un giorno entra nell’ufficio dell’Associazione dell’Amicizia Italia-DDR e si iscrive a un corso di perfezionamento di lingua tedesca oltrecortina. Drago saluta la fidanzata e la famiglia nell’Astigiano e parte per un soggiorno estivo nel campus dell’università di Magdeburgo dove tra musica, flirt e amicizie internazionali trascorre un mese. “L’aria da college di quarta serie era comunque frizzantina, si era tanti, si era giovani e si era maschi e femmine tutti insieme. E si era in Germania Est, come dire su Marte”. Nel romanzo da poco dato alle stampe per BarberaEditore, “La prigione grande quanto un Paese”, Drago racconta questo viaggio surreale nella Repubblica Democratica Tedesca un anno prima della caduta del muro di Berlino. Gli scherzi, il sesso “la nostra stupida età e la nostra voglia di parlare parlare parlare sdraiati sull’erba all’ombra di qualche albero ad ascoltare Zappa e i Rem”: quest’atmosfera rilassata da “college novel” si spezza nelle ultime pagine quando, al momento del rimpatrio, il giovane Drago si rende conto di aver perduto il passaporto. Sotto lo sguardo severo di Erich Honecker nella stazione di polizia di Lipsia, Drago capisce che “l’intera nazione era ostaggio di una cricca di malati di mente con l’assurdo intento di fermare la freccia del tempo”. Come mai hai aspettato tutti questi anni a scrivere di questa avventura? “Quando ho deciso di mettermi a scrivere questo libro era il gennaio del 2012. Ero in convalescenza e volevo riprendere a scrivere narrativa, dopo essere stato fermo per sei o sette anni. Allora avevo pensato di ricominciare da cose semplici, un episodio della mia vita, qualcosa chiuso nel tempo. Il racconto di quella vacanza studio era un esercizio semplice per ricominciare a scrivere. All’inizio non avevo neanche pensato a un libro, e se non ci fosse stato un editore pronto a pubblicarlo sarebbe rimasto a metà perché avevo smesso dopo i primi 15 capitoli”. Sei stato tra gli ultimi a provare l’emozione di attraversare il checkpoint Charlie… “In quegli anni avere a che fare con i tedeschi dell’est, ficcare il naso nelle loro vite, era affascinante. All’epoca non se ne sapeva nulla, non si sapeva come vivevano in Germania Est. Era tutto inedito, nuovo ed esotico. Tra ragazzi non ci capivamo: i giovani si parlano spesso per riferimenti musicali o cinematografici, ma i loro erano diversi dai nostri e mi fa molto ridere ripensare oggi a quelle differenze culturali tra noi e i nostri coetanei dell’est. Spesso mi sentivo inferiore a loro per via della loro profondità. Noi occidentali inevitabilmente apparivamo viziati mentre loro erano seri, studiavano tanto, erano molto preparati. Anche un po’ sfigati per carità. Del resto anche oggi sento dire che i figli di genitori dell’est del mondo hanno migliori risultati a scuola: forse qualcosa della loro forma educativa è sopravvissuto”. C’è tanto di astigiano anche, in questo libro. L’agognata stazione ferroviaria, Canelli, il liceo Foscolo. “La stazione di Asti: avrei dovuto arrivare lì io, con il treno, prima o poi. Invece tra tutti i posti in cui perdere i documenti ero andato a perderlo nel peggiore, e mi sono sentito un cretino perché non si perde mai il passaporto, ma soprattutto non si perde in Germania Est. Asti era la mia unica realtà, lì c’erano tutti i miei affetti, avevo molta nostalgia di casa. Ero davvero un bambino, dopo poco tempo che ero via avevo subito voglia di tornare tra gli amici a giocare a Subbuteo”. Il testo completo dell’intervista è disponibile sulla Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 29 novembre 2013 Marianna Natale
MARCO DRAGO ha scritto L’amico del pazzo, Domenica sera, Zolle, La vita moderna è rumenta e Baladin per Feltrinelli. Cronache da chissà dove per minimum fax. Ha lavorato a Radio 3 e Radio24, ha diretto la rivista Maltese Narrazioni dal 1989 al 2007. Attualmente collabora con Vanity Fair, Rolling Stone e Il Giornale.
Tre domande a… Marco Drago
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