«Vietato non toccare». Un cartello bizzarro? Secondo Massimo Umberto Tomalino che gestisce, assieme a sua moglie Francesca Busa (o forse è il contrario?), il museo astigiano di mineralogia Magmax, assolutamente no. «Toccare un minerale significa capirlo- spiega Tomalino – comprenderlo, metabolizzarlo. Dal suo granuloma si comprende che minerale è». Se gli uomini parlano con le parole e le api con i profumi, i minerali lo fanno con il tatto: accarezzandoli ti dicono chi sono: «Piacere, io sono un pezzo di gesso». E, questo, né adulti e nemmeno bambini lo potranno mai più scordare. Per questo, in cima alla Torre del Quattrone, in corso Alfieri 360 accanto al museo di mineralogia più piccolo del mondo è sorta ora la Biblioteca-laboratorio: per mettere in contatto uomini e minerali. Interpreti di questo dialogo con mezzi diversi sono proprio Massimo e Francesca che lo scorso anno hanno ricevuto circa 600 visitatori da ogni parte del mondo per parlare con i minerali. Sentire le loro storie ed entrare nella loro vita che è un po’ anche la nostra. «Questo è lo Spato d’Islanda- racconta Tomalino mentre inforco gli occhiali per vederlo meglio – nel 1669 si compresero le sue potenzialità e divenne alla base dell’ottica moderna: portò a capire come si potessero modificare le immagini e nacquero cannocchiali, telescopi ed anche occhiali». Con un po’ di stupore gli occhiali scivolano nel taschino e viene fuori lo smartphone per fare due foto. «Questa è l’Ulexite – prosegue Tomalino guardando il mio Samsung – è alla base delle moderne fibre ottiche. In America la chiamano Tv Rock proprio per questo». Metto via pure il cellulare mentre Tomalino estrae un pezzettino di ceramica e prende in mano una pietra nerissima: «Di che colore è questa? – domanda mentre, senza occhiali e telefonino, guardo una striatura rossa sul mio dito indice, figlia di un graffio con un foglio del mio taccuino. Tomalino avvicina la pietra nera alla ceramica e gliela sfrega sopra, mostrando il suo di graffio: «Il vero colore dei minerali si scopre cosi: questa è Ematite e non è nera, ma rossa». Incredibilmente uguale al mio graffio sul dito. Un po’ preoccupato, la visita prosegue: «Questo è un diorama della edizione Paravia degli anni 50 che mostra un profilo idrogeologico- spiega il curatore del Museo alzandone la parte superiore amovibile – questa che ho in mano è la parte che la corrosione ha spazzato via. E che fine ha fatto tutto questo materiale?». Volato via. Nell’aria, nei fiumi, nei campi dove cresce quello che mangiamo, fertilizzato proprio dai nostri amici minerali. «Tutto scorre, per parafrasfare Eraclito, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma, per arrivare anche a Lavoisier» racconta Tomalino. Come il suo Museo che da singola stanza si è trasformato in museo-biblioteca-laboratorio. Come il curatore del museo e sua moglie, anche se non siamo sicuri che l’ordine sia questo, che da due si sono trasformati in un’associazione: «L’associazione magmax è appena nata, non sappiamo nemmeno ancora la quota d’iscrizione». Ma i brividi lungo la schiena salgono quando il naso si avvicina alla teca dove sono custoditi i manoscritti originali di René Just Haüy, pensando che l’abate li aveva vergato di “manu propria” oltre 200 anni fa. «Fu il primo che scopri che i minerali si potevano classificare- racconta Tomalino – iniziò questo lavoro e poi fu incarcerato durante la rivoluzione francese: quando gli dissero che poteva uscire, spiegò ai suoi carcerieri che stava finendo il lavoro di classificazione e rimase dentro a finirlo». Per farlo si inventò il goniometro che tutt’ora usiamo per misurare gli angoli. Scendo dalla torre. Ho visto la principessa che vi è custodita come in ogni favola che si rispetti. In cima ad una torre medievale. Lassù, dove la passione si trasforma in magia. Lassù, dove gli uomini dialogano con le pietre.

Paolo Viarengo