Cosa succede dopo che viene commesso un crimine? Chi si occupa di rilevare le tracce lasciate dai ladri che hanno appena svaligiato un negozio o un appartamento? Chi ancora riesce a rilevare le impronte digitali, magari su un’arma da fuoco e collegare il presunto colpevole alla pistola in questione? Chi si occupa di stabilire se una polverina bianca sia cocaina piuttosto che zucchero? O ancora: chi è che scheda i colpevoli di un reato e chi stabilisce la traiettoria di un proiettile o le prime cause della morte di un corpo trovato senza vita? Sono gli uomini e le donne della polizia scientifica che riescono con il loro lavoro a cavallo fra la chimica, la biologia e la fisica a dare risposte anche ai gialli più complicati ed enigmatici. Sono gli uomini e le donne in camici e tute bianche che, a differenza dei più moderni telefilm di investigazione, si affidano sì alla tecnologia, senza però dimenticare il fiuto da detective. Anche nella questura di Asti esistono questi poliziotti, meglio conosciuti come “la scientifica”, che hanno aperto le porte del loro laboratorio al nostro giornale per un viaggio affascinante fra reagenti chimici, foto segnaletiche e impronte digitali. Nel Gabinetto provinciale di Polizia Scientifica lavorano quotidianamente sei agenti che si destreggiano abilmente fra ogni tipo di crimine, facendo convivere una preparazione tecnica a sangue freddo, capacità investigative e anche stomaco forte. Molti sono i compiti di questi poliziotti che intervengono in seguito alla grande maggioranza dei reati commessi e che li vedono collaborare con tutte le forze dell’ordine, dalla polizia alla guardia di finanza, dalla penitenziaria e alla municipale, ma che svolgono anche servizi di pubblica sicurezza durante manifestazioni, feste cittadine, eventi sportivi ma anche scioperi o agitazioni. Il compito principale degli agenti della scientifica rimane quello di raccogliere e analizzare prove. Impronte, per la maggior parte parziali, ma non solo. Un filo di cotone, un pezzetto di pelle, un residuo di polline sotto le scarpe o una traccia di sudore, una macchia di sangue su un muro sono elementi che parlano e che possono rivelare cosa sia realmente accaduto su quella scena del crimine. Per questo la raccolta degli indizi deve essere fatta nel modo corretto per portare a risultati utili, altrimenti anche solo un errore veniale potrebbe vanificare un’indagine. Il compito della scientifica è infatti proprio questo: ricostruire la realtà dei fatti, cercare attraverso le prove di analizzare cosa è successo nel momento del crimine, furto, omicidio o incidente che sia, senza dare giudizi di merito. E per portare a termine questo lavoro le tecniche utilizzate sono tantissime e sempre in fase di aggiornamento. Il sopralluogo Come cristallizzare quindi la scena del crimine? Gli agenti sono fra i primi ad accorrere dopo un delitto, compiendo un sopralluogo accurato i cui risultati verranno utilizzati non solo nel corso dell’indagine ma anche nell’eventuale e conseguente procedimento penale. Tute bianche e valigetta in mano, i poliziotti si occupano per prima cosa di fotografare la scena del crimine, dal generale al particolare, in modo tale da poter fermare il momento e poter per esempio ricostruire in un secondo periodo l’esatta posizione di un corpo o di un oggetto. Per questo accanto a ogni reperto o traccia trovati, vengono posizionati dei cartellini con lettere o numeri che servono proprio per stabilire con certezza dove si trova un dato oggetto. Il secondo passo è poi cercare segni di effrazione o altri elementi (tracce di sudore, sangue o impronte) che possano portare alla ricostruzione più verosimile della realtà dei fatti. Le impronte digitali Anche nell’immaginario collettivo, contaminato ormai da film, serie tv e libri noir, le impronte digitali sono una delle armi più potenti in mano agli investigatori, più di una confessione. Peccato però che non sia così semplice riuscire a risalire all’identità del proprietario da un misero segno di polpastrello lasciato sulla maniglia della porta di una casa svaligiata oppure sul tavolo di una casa dove è avvenuto un omicidio. Molto spesso infatti le tracce “repertate” sono parziali, incomplete o poco visibili e per questo si deve ricorrere a tecniche diverse anche per prelevarle. In questo caso la fantasia si sposa con la realtà, visto che per scovare le digitali o le palmari, uniche per ogni essere umano, con il tipico pennellino si cosparge la superficie interessata con una polvere che si deposita sul grasso lasciato dalla pelle e che rende visibile quello che prima era solamente un’ipotesi o una speranza. L’impronta, dopo essere stata ampiamente fotografata, viene poi trasferita su un adesivo che viene inserito in uno scanner che la trasforma in negativo. A questo punto la traccia è pronta per essere analizzata e comparata con quelle contenute nel sistema Afis, un “cervellone” che contiene le impronte di tutte le persone schedate e che, se si è fortunati, può condurre dritto all’identità di chi ha lasciato il segno. Anche se la tecnologia è parte integrante di questi passaggi, all’uomo rimane comunque una grande responsabilità. E’ infatti il dattiloscopista che decide se l’impronta è utile e che esegue una prima scrematura paragonando la traccia con altre del tutto simili e scartando quelle invece che non possono essere compatibili. C’è poi un altro aspetto legato a questo compito, ossia la catalogazione delle impronte di persone in vita che hanno commesso un reato o che entrano per la prima volta nel nostro Paese, provienti da nazioni fuori dalla Comunità Europea. Anche in questo caso la scientifica si occupa di rilevare le digitali e di fotosegnalare il soggetto servendosi di uno scanner computerizzato che introduce immediatamente la traccia nel sistema. Il narcotest Altro importante compito degli uomini in camice bianco è quello di analizzare le sostanze sospette rinvenute in un’indagine e capire se si possa trattare di stupefacenti. Si tratta di un’analisi iniziale e non probante che comunque richiede un aggiornamento continuo visto che viaggia di pari passo con l’evoluzione delle droghe, specie quelle sintetiche. In base alla sostanza che si presuppone possa essere, si usa un solvente diverso che colora il materiale in modo diverso a seconda che si tratti di anfetamine, oppiacei, cocaina e così via. I laboratori chimici veri e propri si trovano nella sede regionale della scientifica ma già nei gabinetti provinciali è possibile compiere una prima analisi. Gli altri compiti E’ facile capire quanto sia impegnativo e variegato il mondo della polizia scientifica e quante siano le competente degli agenti che devono tenersi continuamente al passo delle tendenze criminali. In un laboratorio standard infatti si analizza anche la veridicità di documenti o soldi falsi, si repertano tracce, indumenti e altri oggetti presi dalle scene del crimine che vengono congelati o “essiccati” per mantenerli ancora utilizzabili in caso di indagini, si analizza la disposizione delle tracce di sangue o la traiettoria di un proiettile. Non solo. I poliziotti infatti documentano anche le violenze domestiche o sessuali, con reportage fotografici che hanno lo scopo di non lasciare spazio a dubbi sull’accauduto, e assistono molto spesso agli esami autoptici, collaborando con il medico legale. Ruoli e compiti difficili, quindi, altamente tecnici ma che presuppongono anche una necessaria umanità che certo non manca alla scientifica astigiana.   L’astigiano Ottolenghi, papà della polizia scientifica Forse non tutti sanno che il padre della polizia scientifica che proprio quest’anno spegne 100 candeline è l’astigiano Salvatore Ottolenghi. Il medico legale nato nel 1861, dopo aver frequentato i corsi di Cesare Lombroso all’Università di Torino ed esserne stato assistente, ottenne la cattedra di medicina legale a Siena, che resse fino al 1903. Si trasferì poi a insegnare a Roma dove oltre ai corsi universitari che tenne per parecchi anni, fu il promotore della fondazione della Scuola di Polizia Scientifica, alla quale diede un in dirizzo antropo-biologico. Fra i meriti e le intuizioni di Ottolenghi l’introduzione del cartellino segnaletico e un innovativo metodo di classificazione delle impronte digitali (il Sistema Gasti). Ha inoltre istituito il servizio di segnalamento e di identificazione, il casellario centrale d’identità, i gabinetti di polizia scientifica in tutte le questure e ha iniziato la pubblicazione del Bollettino della Scuola di Polizia Scientifica (1910). Negli anni precedenti alla prima guerra mondiale ha adottato una nuova cartella biografica, con i dati anagrafici del malvivente, valutazioni sulla sua capacità a delinquere e sulla sua specialità criminosa. Fino al 1934, anno della sua morte Ottlenghi diresse la Scuola di Polizia Scientifica, che nel 1925, assunse il nome di Scuola Superiore di Polizia e Ottolenghi ne. L’astigiano è anche autore di un Trattato di Polizia Scientifica (1931) e di altre opere di notevole caratura scientifica.