DON GALLO“Ieri, 22 maggio, è stata diffusa la notizia della morte di don Andrea Gallo: già da alcuni giorni si sapeva che le sue condizioni stavano peggiorando e nella stessa giornata  “Il secolo XIX” di Genova aveva informato i lettori che era gravissimo. È quasi impossibile che i destinatari di questa lettera non sappiano chi era don Andrea. Per definirlo, comunque, potrebbe essere sufficiente dire  che era un prete genovese con la schiena diritta che si è dedicato agli ultimi. E tuttavia questa mattina presto, aprendo la posta, ho letto di lui forse la più bella definizione in assoluto, una definizione che è poesia pura, ed è di un prete, don Mario, di Cossato (BI), anche lui con la schiena diritta (ed è virtù rara): “Un uomo dipinto di cielo che si è macchiato di terra per farsi racconto di Dio in mezzo agli ultimi”. Divagando, stanotte, mentre risuonava nella  mia mente la sua voce rauca, eppure molto dolce, mi dicevo che per una strana coincidenza tutti i Gallo (preti, diaconi, laici) che ho conosciuto e che conosco sono persone partite senza indugio (è il tema del quarto numero 2013 della nostra rivista) e senza timori, sul filo della fantasia, non per evadere, ma per essere fedeli. Ma è una divagazione… appunto. Fedele agli ultimi don Andrea lo è stato. Fino all’ultimo. Ma quanta fatica (la stessa che mi raccontava don GiacominoPiana, un altro prete per il quale varrebbe la splendida definizione di don Mario) farsi accettare dalla chiesa genovese che – possiamo dirlo senza mezzi termini e senza tema d’essere smentiti – non lo amava.Lo sopportava, anche se talvolta lo strumentalizzava.  Troppo scomodo, troppo imbarazzante, troppo provocatorio, con quel suo cappellaccio che non si toglieva davanti ai potenti, ma che cadeva in terra quando si chinava sui più piccoli. E poi quella sua mania d’essere sempre in testa ai cortei più improponibili, fossero essi di extracomunitari o di extraparlamentari… Un boccone duro da digerire per i cattolici per bene,“da salotto”, quelli che non amano i rischi e le avventure. Quelli che non fanno fatica  a  baciare gli anelli dei vescovi, ma pronti a derubricare in un gesto simbolico il bacio al lebbroso di Francesco. Come potevano amare, loro che amano il linguaggio forbito e che attenti alle proprie emozioni  non si lascerebbero mai scappare di bocca un’imprecazione, un prete che parlava in modo diretto e  che sembrava uscito (che usciva, anzi) da uno di quei caruggi (crêuze) genovesi, dagli inimmaginabili odori,  due file strette di case fatiscenti, una signora grassa seduta davanti alla porta, e dalle finestre occhieggianti le bocca di rosa cantate da Fabrizio De André? Questi erano i luoghi della missione di don Andrea, i luoghi degli ultimi. Aveva rotto con il capitalismo e con i suoi fautori, don Andrea, non come altri in modo arrabbiato, violento, ma con quel suo sorriso ironico, già di per sé dissacrante, e c’era tutta una passione in quel sorriso, e in quella dissacrazione, perché aveva capito che è più provocatoria l’ironia che la rabbia. Più spiazzante. Un’associazione di idee (sono sempre più frequenti alla mia età…) mi fa ricordare che cosa diceva Ernesto Balducci (un altro prete che non ha mai accettato compromessi…) proprio sulla rottura della solidarietà con il capitalismo… Parlando della Mission de France diceva che questa rottura aveva le stesse caratteristiche di quella operata dagli ordini mendicanti (il primo francescanesimo, ad esempio) nei confronti del feudalesimo e del regime feudale della Chiesa: la stessa violenza evangelica e non ideologica;  un ritorno all’Evangelo che necessariamente porta alla rottura con le sovrastrutture collettive e quei disordini sociali di cui i poveri, gli ultimi, non sono gli attori, ancorché ne vengano accusati, ma le vittime. Non è certo un discorso per lo stomaco delicato  del perbenismo cattolico. No, decisamente dai vertici della Chiesa genovese non era amato don Gallo, come d’altronde non era amato don Piero,il mio parroco al don Bosco di Asti,  lui che aveva studiato lo spagnolo per poter celebrare l’Eucaristia con i suoi immigrati sudamericani nella sua Sampierdarena diventata ormai città d’elezione,  e improvvisamente trasferito a Vercelli, guarda caso!, dopo aver organizzato incontri regolari con i gay. Preti conciliari, razza ormai in via d’estinzione e non solo per ragioni legate all’avanzare impietoso del tempo. Ho ascoltato per l’ultima volta don Andrea in una recente puntata della trasmissione  “Che tempo che fa?” di Fabio Fazio. Don Gallo era un affabulatore straordinario. Difficile fermarlo quanto partiva ( Fazio, che si è formato alla scuoladi Albisola di Bof, e sa dunque cogliere le novità teologiche,  lo lasciava parlare…). La cosa più straordinaria era la sua capacità di spiazzare: di dare un “taglio” religioso nelle risposte a  domande laiche; e un taglio laico rispondendo a domande religiose. Un’autentica lezione di teologia, di teologia narrativa, che non esiterei a definire un’eredità preziosa di don Andrea. Che con i profeti, dall’Antico testamento e su su fino a noi, condivideva l’originalità non solo formale dichi dice uomo per dire Dio e dichi dice  Dio per dire uomo. Per questo, semplicemente, vorrei dire un grazie grande a don Andrea Gallo”. Luigi Ghia