PALIO DI ASTI“Domenica pomeriggio, ero ad Asti per manifestare il mio dissenso nei confronti della corsa dei cavalli, punta di diamante del Palio di Asti. Un presidio autorizzato dalla Questura ha raccolto rappresentanti di associazioni animaliste e antispeciste e di cittadini, tra cui diversi astigiani, che hanno voluto prestare la loro voce ai cavalli che, come tutti gli animali, non possono farla sentire. Purtroppo non bastano, o forse non vengono volutamente capiti, i nitriti di quelle povere bestie costrette a lavorare per dare spettacolo. Non avevo mai visto il palio da vicino, incorniciato da una città che pare stringersi attorno a questo evento. Sarà stata la pioggia insistente ma devo ammettere che ho visto una città desolante. Non sono entrata nella piazza ad assistere alla corsa perché non reggo all’emozione (negativa) di vedere cavalli inquieti, nervosi, frustrati e frustati alla partenza, lanciati in una corsa innaturale e pericolosa per pochi drammatici minuti. Quest’anno non avrei retto all’emozione della tragedia che ha colpito Mamuthones, morto ancor prima di partire. Il fantino gli ha sferzato alcuni colpi di nerbo, uno strumento considerato del tutto legale, se non addirittura utile, quando ancora il canapo era alto: probabilmente per sottrarsi al dolore, il cavallo è inciampato nel canapo, è caduto a terra, sbattendo la testa e rompendosi l’osso del collo. Tutto ciò che so della tragedia, l’ho appreso dalle cronache, dal racconto di chi ha assistito allo spettacolo e lo ha riferito a noi del presidio e da un filmato diffuso in rete. Immagino un cavallo stramazzare a terra e rompersi l’osso del collo davanti alla folla smaniosa di vedere lo spettacolo. Ammesso che fino ad allora ci si volesse “divertire”, dopo la morte di un cavallo, il tredicesimo dal 2003 a oggi, forse era il caso di uscire tutti in massa e prendere coscienza dell’inciviltà di quello spettacolo. Invece no. Non bisogna essere psicologi per sapere quanto attiri la spettacolarizzazione del dolore: non è stata una sorpresa vedere che gli spettatori sono rimasti incollati al loro posto finché la pioggia fine si è trasformata in pioggia battente, segnando la fine delle speranze di spettatori e organizzatori di veder proseguire lo spettacolo. Su alcuni giornali ho letto che si è deciso di sospendere il palio “per la morte del cavallo” ma chi era là ha capito benissimo che se la pioggia fosse cessata e fosse tornato il sole, in un batter d’occhio, con una veloce asciugata del terreno, tutto si sarebbe magicamente ripreso. Quello era il momento del divertimento e soprattutto del business. Il giorno dopo, forse, ci si sarebbe soffermati sul povero Mamuthones: invece il giorno dopo ci si è concentrati di più sul cavallo che ha vinto che su quello morto. Penso a Mamuthones come a un morto sul lavoro con la differenza che un operaio che muore cadendo da un’impalcatura ha cercato disperatamente di lavorare perché il lavoro è un suo diritto mentre Mamuthones e tutti gli animali lavoratori cercano disperatamente di non lavorare perché è un loro diritto non farlo: il lavoro non dà loro dignità ma li rende ridicoli, li svilisce, li riduce a oggetti e a macchine per essere sfruttati. Un cavallo ha un’eleganza e una fierezza innata e noi animali umani lo riduciamo a burattino costringendolo a correre, comandato a bacchetta e, come se non bastasse, frustato. La notizia della sua morte ha addolorato tutti noi che eravamo al presidio ed è comprensibile che il dolore si sia trasformato in rabbia e che la rabbia abbia fatto volare qualche parola di troppo. Certo, la rivoluzione non è un pranzo di gala: se ci si fosse seduti a un tavolo con le istituzioni a ragionare di abolire questa maledetta corsa di cavalli, si sarebbero usati toni diversi. Gli animalisti e gli antispecisti parlano con la voce degli animali: non bisogna essere etologi per capire che se un cavallo potesse esprimere la sua contrarietà per  questa corsa incivile, il linguaggio che userebbe non sarebbe certo un linguaggio da educande. Quando contesto questo genere di spettacolo, chi lo difende lo fa in nome della tradizione, della cultura, del turismo, del lavoro, della didattica. Domenica non ho visto nulla di tutto ciò. Sono rimasta fino a sera per vedere l’espressione del pubblico che usciva da Piazza Alfieri. Mi aspettavo di vedere persone per lo meno turbate, se non addirittura sconvolte, dopo ciò che era successo, invece ho visto persone forse un po’ indispettite da quella pioggia battente che aveva rovinato tutto: infatti erano rimaste lì finché la pioggia non le ha costrette ad abbandonare la piazza. Ho visto genitori con bambini: non so cosa possano avere risposto certi genitori alle domande dei bambini che ci spiazzano con la loro curiosità e che in genere hanno molto da insegnare agli adulti quanto a empatia con gli animali. Come spiegare a quei bambini che Mamuthones è stato ucciso dagli adulti per “divertimento”? Quel pubblico mi ha ricordato il pubblico del Colosseo in quegli spettacoli che sono una vergogna della nostra storia antica. Coi Romani funzionava così: panem et circenses e quella locuzione ieri era la didascalia più calzante per Piazza Alfieri. Quando accadono episodi incresciosi come questo, trovo interessante sentire cosa ne pensa la parte in causa, non nel senso delle vittime (che in questo caso non possono parlare) ma di coloro che le hanno causate: si dovrebbe dire “carnefici” ma voglio essere più delicata possibile, senza offendere nessuno. Tra tutte le riflessioni lette, ho trovato interessanti, proprio perché paradossali, quelle del direttore de Il canapo Alessandro Franco, che le ha generosamente pubblicate, pensando di dare una lezione di “sviluppo, storia, cultura e costume”, secondo quello che è lo slogan del suo sito dedicato al palio. A proposito di slogan, mi ha colpito il suo riferimento agli slogan di animalisti e antispecisti, non certo delicati come cerco di essere io che sono orgogliosamente animalista e antispecista, e si stupisce che quelle persone condividono sui social network le foto dell’incidente. Non bisogna essere un esperto della comunicazione per capire che quello è il solo modo per far conoscere l’essenza di questa “festa” perché parecchi mezzi di informazione, elementi trainanti di quel sistema malato, non si concentrano certo sulla morte di un cavallo che “danneggia” il business. Contrariamente a ciò che ho sentito da diversi pulpiti, io non auguro la morte ad alcun fantino, anzi, spero che ciascun fantino si ravveda da ciò che ha fatto finora e che interrompa questa catena di morte.  E quando il direttore scrive “rispettiamo le opinioni (per altro legittime) di quelli a cui il Palio non piace ma chiediamo che vengano rispettate anche le nostre” taglia fuori un pezzo dell’ingranaggio: le opinioni dei cavalli. E’ davvero singolare che chi ama i cavalli, come il direttore dice di amare, non sappia leggere nella loro mente: ce l’hanno scritto in fronte che non vogliono essere schiavi frustati.
Ed è interessante la sua riflessione sulla “vera barbarie del progresso” identificata in “precariato, difficoltà quotidiane, incertezza per il futuro” e “tutto il progresso umano è basato sullo sviluppo umano”: un ragionamento a cui non aggiungo sulla se non che il primo segno di debolezza nell’affrontare un argomento lo si dà proprio passando a un altro.Oggi si parla di palio e sviare il discorso significa essere impantanati in un sistema che mi auguro crolli prima possibile. Vorrei tornare il prossimo anno ad Asti e vedere uno spettacolo storico, culturale, turistico, didattico, senza sfruttamento di animali, con un pubblico di tutte le età che possa essere fiero della sua città e delle sue tradizioni. Vorrei rifarmi di ciò che ho visto quest’anno, uno spettacolo in cui l’elemento migliore è stato un cartello, il più diffuso, appeso al collo di parecchie persone che recitava Sono di Asti e sono contro il palio”. Paola Re