Sono già passati trent’anni dall’arrivo degli albanesi ad Asti. La nostra città è stata uno dei primi comuni ad accogliere i migranti sbarcati sulle coste italiane dopo la caduta del regime. I profughi arrivati in massa furono, inizialmente, ammasssati alla caserma”Colli di Felizzano” da poco dismessa.

Da quella primavera del ‘91 ne è passata di acqua sotto i ponti e la comunità albanese si è perfettamente integrata nella vita di tutti i giorni, sono diventati astigiani a tutti gli effetti.

Il sogno per una nuova vita, per un mondo sconosciuto ma di cui avevano sentito parlare, li ha spinti a lasciare le loro case, i loro genitori, parenti e amici. Sono scappati da una nazione in piena emergenza e in un periodo di transizione dopo un lungo regime dittatoriale. 

Per ricordare quei giorni del loro arrivo, abbiamo pensato di raccogliere le testimonianze di alcuni di loro, perché solo dalla viva voce di chi ha vissuto quei momenti si possono comprendere,realmente, gli stati d’animo, le emozioni e le reazioni di coloro che arrivarono in massa in un Paese straniero per realizzare il loro sogno di libertà.

Li abbiamo sentiti telefonicamente perché è impossibile incontrarsi in questo momento di pandemia ma anche se non li abbiamo guardati negli occhi, sentire le loro parole rotte dall’emozione ci ha riempito il cuore e ci ha fatto tornare a quei giorni, riuscendo quasi a riviverli insieme a loro.

Il nostro gancio è stato, come sempre, Artan Sadikaj, uno dei fondatori di AssoAlbania e membro del consiglio direttivo, sicuramente uno tra i più attivi nel nuovo centro culturale: “Sono arrivato in Italia in quel marzo ‘91 con mio padre, avevo 17 anni. Dopo un breve periodo in caserma, ho cominciato a lavorare nell’edilizia, mestiere che faccio tuttora. E’ l’attività di famiglia, che svolgevamo già in Albani da generazioni. Questo paese mi ha dato tantissimo, come la città di Asti. Sono orgoglioso di avere messo radici profonde, ho moglie e tre figli.

Adesso in questo momento molto brutto per tutti noi, sto cercando di ricambiare quanto abbiamo ricevuto allora, collaborando con le altre associazioni di volontariato, per aiutare chi più ne ha bisogno”.

Un altro di quei ragazzi del ‘91 ci ha raccontato la sua storia.

“Sono stato uno di quelli arrivati proprio nel marzo del 91, sbarcato a Brindisi e poi ho fatto il viaggio in treno fino ad Asti e sono stato ospitato alla caserma “Colli di Felizzano”- comincia il suo racconto Hasan Bulcari, co-fondatore di Assoalbania –. Avevo già trent’anni e conoscevo un po’ di lingua italiana, così facevo da interprete. In Albania ero un attore e direttore artistico di teatro a Elbasan e, tramite l’avvocato Occhionero, sono venuto in contatto con il gruppo del Magopovero di Luciano Nattino che mi ha dato una grossa mano. Dopo sono entrato a far parte di una cooperativa che si occupava di scenografie, allestita dal signor Arselli, dove ho imparato tante cose perché facevamo tante cose dagli impianti elettrici alle vetrofanie alle insegne. Poi, dopo la morte improvvisa del titolare nel 1997, mi sono messo per conto mio e dal 2012 sono responsabile tecnico per gli impianti elettrici di un’impresa edile. Faccio parte del direttivo di AssoAlbania e sono orgoglioso di tutto quello che, come associazione, stiamo facendo a partire dalla creazione del centro culturale per finire a tutta la serie di corsi, sono dieci, per i nostri ragazzi che devono crescere conoscendo le loro radici. Stiamo pensando a tante altre nuove inziative, tra cui un concorso letterario”.

Passiamo da un’emozione all’altra, quando sentiamo dalle parole di Taulant Filja che, sbarcato in caserma nel marzo ‘91 a 19 anni, è stato subito mandato in cucina, perché in Albania aveva fatto l’Alberghiero e sapeva cucinare. 

“Quel pomeriggio del 5 marzo ‘91 fu la prima e l’ultima volta che mentii a mio padre dicendogli che sarei andato al compleanno di un mio amico, anche se lui aveva percepito che stava per perdere l’unico figlio per sempre. E con le lacrime negli occhi mi disse : “Ovunque tu andrai come casa tua non troverai mai”. 

Me ne sono andato senza guardarmi indietro, senza guardare i suoi occhi  pieni di lacrime, senza abbracciarlo per l’ultima volta. Dopo tante disavventure insieme al mio amico Resart, siamo riusciti a salire sulla nave (Legend), un mercantile preso in ostaggio da alcuni come noi. Dopo un lunghissimo viaggio di 30 ore in compagnia della notte e di un  freddo pungente, stipati su quella nave, affamati e stanchi, siamo riusciti a scendere a Brindisi. Lì abbiamo capito che finalmente la nostra vita sarebbe cambiata per sempre. Appena arrivato in questo nuovo mondo, mi sentivo pieno di emozioni , di voglia di vivere. In caserma ci sono rimasto poco.Ero venuto per ritrovare la libertà e qui con grande forza di volontà l’ho trovata. Ho lavorato per cinque anni alla pizzeria Francese, poi 10 anni dai Toscanacci  e adesso sono 15 anni che lavoro per conto mio e gestisco Pizzalandia. Allora abbiamo combattuto con un nemico reale, la povertà, la mancanza di libertà e di lavoro, adesso stiamo combattendo un nemico invisibile che sta distruggendo le nostre vite e sta azzerando tutti i nostri sacrifici, ma non siamo in grado di contrastarlo perché è subdolo e traditore”.

Un’altra testimonianza è stata quella di Ilir Shahini, arrivato da Durazzo anche lui nel ‘91 , laureato in Psicopedagogia e che lavorava al museo Archeologico della sua città: “Ero uno dei pochi che conosceva bene la lingua italiana e quindi in caserma facevo l’interprete. Ho apprezzato la grande umanità delle Forze dell’Ordine. Ho avuto la fortuna di inserirmi subito nel tessuto sociale italiano, in quanto ho trovato subito lavoro e sono entrato a far parte del laboratorio di restauri di Nicola di Aramengo. Ormai ci lavoro da trent’anni, sono diventato restauratore di beni culturali.

Ho un profondo rispetto e una grande ammirazione per la famiglia Nicola, fin dall’inizio sono stato considerato uno di loro, sono sempre stato fatto partecipe dei loro progetti, anche quelli più importanti. Sono orgoglioso anche di far parte di AssoAlbania e della creazione del nostro centro culturale. Siamo tuttti volontari e ognuno partecipa mettendosi al servizio degli altri in base alle proprie capacità e conoscenze. Io insegno disegno nei corsi per i nostri ragazzi. Il nostro obiettivo è quello di trasmettere alle future generazioni le nostre tradizioni popolari che anche i nostri figli devono conoscere e rispettare”.

In quel marzo di trent’anni fa sono arrivate anche tantissime donne e abbiamo voluto sentire la loro voce, conoscere le loro esperienze e sapere come si sono ambientate nella nostra città.

La prima signora che abbiamo avuto l’onore di sentire è stata Linda Gjuzi: “Sono arrivata anch’io a Brindisi nel ‘91, avevo 22 anni ed ero con mio marito. Lui conosceva l’Italiano e si prodigava come traduttore. Siamo stati accolti con grande umanità già al nostro arrivo al porto, poi siamo stati trasferiti ad Asti e siamo stati ospiti della caserma per quattro mesi. Mio marito ha poi trovato lavoro dalla famiglia Rasero. Abbiamo anche vissuto, come “villeggianti”, per due mesi al campeggio di Valmanera. Ne l ‘92 sono diventata mamma. In Albania facevo la sarta, avevo fatto la scuola e lavoravo in tintoria. Ho vissuto per vent’anni a Revigliasco, dove ci chamavano “I ‘Albaneis”, una piccola comunità, un ambiente familiare che ci ha accolti, inizialmente con diffidenza e poi ci ha integrati, come fossimo sempre stati lì. Ho anche conseguito un diploma per aver seguito un corso di piemontese. Nel 2004 ho realizzato il mio sogno e ho aperto un negozio di lavanderia in Strada Valmanera ad Asti dove sono tornata a vivere nel 2011. Anch’io faccio parte del gruppo di Assoalbania e sono sempre disponibile quando mi chiamano per dare una mano alle varie iniziative che propongono”.

“Dulcis in fundo”, vi proponiamo una storia un po’ diversa, singolare, ed è quella di Arbera Rubolino (Aba), giunta anche lei nel ‘91 ma con un altro viaggio, anche perché lei è di origine italiana. “Quando sono arrivata in Italia nel ‘91 avevo 14 anni. In Albania avevo vissuto a Scutari con la nonna, a Tirana con i miei e andavo a Durazzo per le vacanze. Sono di origine italiana perché mio nonno era un militare italiano inviato in Albania, ci era rimasto dopo l’armistizio e aveva sposato mia nonna albanese. Dal matrimonio sono nati due figli, Roberto e Giorgio. Nel ‘90 mio zio, vista la situazione di indigenza in cui la popolazione era costretta a vivere in Albania, si è presentato in ambasciata  dichiarando le nostre origini italiane. Così abbiamo ottenuto i passaporti. Ci siamo imbarcati anche noi, ma non con navi di fortuna, siamo partiti da Igoumenitsa in Grecia e siamo sbarcati a Bari, dove ci attendevano i parenti di mio padre e ci hanno portati in Basilicata, in provincia di Matera. Purtroppo non c’era lavoro, i miei erano architetti ma si erano accontentati di raccogliere la frutta. Le persone erano molto generose, ci davano una grossa mano, ma mancavano proprio le strutture. A un certo punto abbiamo capito che l’ unica possibilità per noi era venire al Nord e così, tramite conoscenze, siamo arrivati ad Asti. Avevo iniziato le scuole superiori in Basilicata e poi ho continuato ad Asti, al Giobert.

La mia grande passione è il violino, mi sono iscritta al Conservatorio e mi sono diplomata.

Ho avuto la fortuna di essere assunta come impiegata amministrativa nei Vigili del Fuoco di Asti dove lavoro tuttora. E poi negli anni ho continuato a coltivare la mia passione per il violino suonando in tante orchestre amatoriali, dalla musica da camera al folk, da quella sinfonica al rock.

Ho avuto l’occasione di conoscere il grande Gianni Basso e mi sono appassionata anche al jazz.

Adesso in questa periodo di pandemia suono nella chiesa di San Domenico Savio durante le funzioni. Ho due figlie adolescenti che faticano a comprendere, come tutti i ragazzi, tutto quello che abbiamo passato. Io racconto loro sempre un aneddoto della mia infanzia in Albania, per spiegare come si viveva privi di ogni libertà. Avevo trovato in casa di  mia nonna un libricino di preghiere ma lei non voleva che le imparassi perché addirittura temeva che, durante il sonno, le pronunciassi quando mi trovavo in colonia con gli altri bambini e qualcuno potesse fare la spia in quanto erano proibite dal regime. Avevo anche disegnato un paio di baffi al nostro dittaore, onnipresente sui libri di storia. Un’insegnante amica di mia madre le consigliò di eliminare la pagina e di comprare un libro nuovo in quanto se l’avesse visto qualche collega, molto legato al regime, avremmo potuto passare guai seri. Vivevamo nella paura e nel terrore, ma fino a quando non siamo arrivati in Italia non ci siamo resi conto di cosa fosse la libertà. Faccio anch’io parte dell’associazione e insegno ai bambini a suonare il violino. Già al primo corso, quando non eravamo ancora nella nostra “casa” di via Lamarmora avevo 16 allievi. Ora i corsi continuano in dad ma non è la stessa cosa”.