Pubblichiamo l’intervista firmata dal direttore del Sir (Servizio Infomazione Religiosa) Domenico Delle Foglie al cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei. 
Cardinale Bagnasco, lei ha scelto la metafora evangelica della “porta stretta” per titolare la raccolta delle prolusioni pronunciate nel corso del primo quinquennio di presidenza della Conferenza episcopale italiana. Sicuramente lei avrà pensato ai grandi “talenti” che la Chiesa italiana ha ricevuto in dono, non fosse altro che per la sua vicinanza tutta speciale al Papa. Può dirci se ritiene, dal suo osservatorio privilegiato, che la Chiesa italiana li abbia investiti tutti, che abbia saputo metterli in gioco?  
“Ricordo bene che proprio all’inizio del mio servizio ebbi modo di sottolineare il privilegio di essere come Chiesa italiana oggetto ‘di una speciale premura e di un assiduo magistero nei nostri confronti’. Il riferimento al Papa è ovvio, ma mai scontato. In questi anni ho avuto modo di sperimentare personalmente quanto la vicinanza di Benedetto XVI sia una risorsa di incalcolabile portata per il cammino delle nostre Chiese locali. Come ogni dono accolto, questa opportunità diventa pure un impegno. Di fatto, senza paura di inorgoglirsi, la Chiesa del nostro Paese è vista ovunque come una esperienza di cui tener conto nell’affronto delle sfide e dei problemi che la società moderna pone all’annuncio del Vangelo. Naturalmente anche da noi la questione della fede è diventata una sfida giacché non si può mai darla per acquisita in via definitiva ed, anzi, ogni generazione, compresa la nostra, è chiamata a riappropriarsi dell’esperienza cristiana. Il compito urgente resta quello di superare un certo indifferentismo che nasce da un diffuso analfabetismo religioso che ha smarrito il senso del vocabolario cristiano e che attende di vedere una nuova inculturazione della fede dentro gli ambiti della vita quotidiana: la famiglia, la scuola, il lavoro, il tempo libero, la politica”. 
È giusto affermare che nella sua lettura della religiosità in Italia, lei non si sia mai allontanato dalla consapevolezza di doversi rapportare, sempre e comunque, con una Chiesa di popolo? “È opinione diffusa che il nostro Paese abbia salvaguardato una presenza popolare perché non ha scelto vie elitarie, ma ha puntato molto sulla prossimità espressa soprattutto nella forma della parrocchia. Proprio questa realtà rappresenta un tutt’uno con il paesaggio geografico, a riprova della profonda interazione tra la Chiesa e il territorio. Naturalmente l’essere la nostra una Chiesa di popolo non equivale affatto ad ipotizzare una sorta di ‘religione civile’ che dovrebbe limitarsi a far da puntello ad un contesto smarrito e privo di riferimenti. L’annuncio del Vangelo non potrà mai essere l’equivalente di una semplice tutela dei valori nazionali, ma si manifesterà sempre attraverso lo scandalo della croce e della resurrezione di Gesù Cristo, la cui sequela resta la migliore forma di umanizzazione, secondo l’intuizione di Gaudium et Spes: ‘Chi segue Cristo, si fa lui pure più uomo’ (22)”. Da una rilettura dei suoi testi emerge un dato costante: il tentativo di porre sempre in equilibrio la spinta al realismo con la responsabilità della profezia. È un bilanciamento sempre difficile dal quale dipende anche la credibilità di tutti i cristiani. Quali sono stati, a suo avviso, i momenti cruciali di questo quinquennio nei quali si sono imposti la forza del realismo cristiano e l’urgenza della profezia? “Vorrei far riferimento – per cominciare – al 150° dell’unità nazionale che ha visto la Chiesa coinvolta in una rievocazione che non è stata solo un anniversario, ma un invito ‘a serrare le fila’ per un nuovo innamoramento dell’essere italiani. L’Italia ha un retroterra storico e culturale che si commenta da sé, ma soprattutto ha un patrimonio di umanità e di dedizione spesso disatteso dalla comunicazione pubblica che tende ad accreditare l’immagine di un Paese allo stremo, senza linfa vitale. Stando in mezzo alla gente ci si accorge che invece le risorse ci sono e che attendono solo di essere messe a regime, sfidando l’individualismo e la tendenza a ripiegarsi nel privato. Un altro momento cruciale è stata la condivisione dei drammi collettivi come la crisi economica e il terremoto in Abruzzo. Per la prima l’istituzione di un Fondo per le famiglie (‘Il prestito della speranza’) ha mostrato in concreto la vicinanza dei cristiani e nel secondo la colletta nazionale in tutte le parrocchie è stato un segnale forte della solidarietà. Non sono mancati momenti di confronto culturale aperti e non convenzionali, specie per quel che riguarda la vita che va salvaguardata sempre dal concepimento alla fine naturale e la famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna. Mi auguro che si chiarisca sempre meglio che la Chiesa non ha nessuna volontà di ingerenza tantomeno politica, ma sente come sua missione quella di non svendere l’umano e di difenderlo contro qualsiasi riduzione”. 
È indiscutibile che in lei emerge una profonda preoccupazione educativa, anzi un’urgenza educativa che affonda le sue radici tanto nella “lezione” di Antonio Rosmini, quanto nella sua particolare sensibilità per la sfida portata dalla modernità alla coscienza delle donne e degli uomini del nostro tempo. Con il sostegno convinto di tutti i suoi confratelli, lei ha chiesto alla Chiesa che è in Italia di “educare alla vita buona del Vangelo”. Ritiene che siamo sulla strada giusta in quest’impresa ciclopica? 
 “Penso che aver rimesso a tema l’educazione sia stato un atto necessario, visto il disarmo ideale e la deregulation morale che negli ultimi tempi sono stati sbandierati quasi fossero sinonimo di progresso e di modernità. L’abbandono della scelta educativa è stato spesso il frutto di una malintesa concezione dell’individuo che sarebbe tale nella misura in cui è lasciato solo a se stesso, dimenticando che l’io dell’uomo si costruisce sempre all’interno di un ‘noi’ più ampio. Ritrovare questa apertura all’educazione significa ritrovare la persuasione che non siamo gettati nel mondo, ma abbiamo una vocazione da scoprire non chiudendoci nei limiti della sola ragione, ma lasciandoci sfidare dalle domande della vita che attendono risposte non preconfezionate, ma costruite con l’impegno serio e la fiducia sincera. La Chiesa crede nell’uomo e pur consapevole di tanti problemi, lo invita ad alzare lo sguardo e a non lasciarsi mortificare da una visione solo orizzontale. Il cielo, grazie a Dio, non è vuoto”. Lei suggerisce ai credenti di fare proprio lo sguardo di Dio che giudica la realtà senza condannare l’umanità. Anzi, propone una dinamica del “sì” che restituisca gioia e consapevolezza anche nelle partite più difficili della vita. Quanto spazio c’è per ricondurre i valori non negoziabili come la vita, la famiglia e la libertà di educazione, nell’orizzonte pacificante del “sì”? 
 “Lo spazio c’è nella misura in cui torniamo ad interrogarci su quale sia il bene e, ancor prima, su quale sia stato l’esito di una visione dell’uomo sganciato da qualsiasi altro riferimento che non sia il proprio io e le proprie voglie. Se c’è lo sguardo di Dio l’atmosfera di un mondo chiuso in se stesso si allontana e si percepisce una prospettiva di senso che riscatta anche i fallimenti e gli errori umani. Se Dio c’è, il mondo riacquista il suo incanto e l’uomo è rimesso in condizione di non accontentarsi dei semplici bisogni, ma di coltivare quei desideri profondi che coltiva in sé, anche se allo stato latente. In questo contesto i valori della vita sono dei grandi sì detti all’uomo, alla sua pienezza e alla sua dignità”. Nelle sue prolusioni è costante il richiamo all’impegno sociale, culturale e politico del laicato cattolico, come espressione creativa e originale della fedeltà a Dio e all’uomo. Quanto siamo vicini alla concretizzazione del “sogno” da lei evocato, sulle orme di Benedetto XVI? 
 “Il cristiano non può limitarsi ad una concezione del bene solo individuale, ma deve agire perché si allarghi il bene comune, cioè la possibilità offerta a tutti di realizzare pienamente se stessi. In questo senso la politica, talora ridotta da alcuni ad una ricerca del proprio tornaconto, ritrova la sua ragion d’essere. Si passerà dal ‘sogno’ di una nuova generazione di politici cattolici alla realtà, quando all’interno del mondo cattolico crescono vocazioni ad un impegno disinteressato che facendo leva sui valori di riferimento condivisi, punti a costruire una nuova stagione di impegno ai valori della vita e della solidarietà. Siamo sulla buona strada: molte persone – specie a livello della politica locale ma non solo – esprimono interesse crescente e consenso a tale riguardo. È qualcosa che sta nascendo”.