Fidarsi o no? Se lo chiedete a Gian Piero Godio, presidente di Legambiente Vercelli, darà atto all’ex governo Conte di aver coraggiosamente reso pubblico ciò che da troppi anni si attendeva, la mappa dei siti italiani ritenuti idonei ad ospitare eventualmente le piccole e grandi scorie nucleari prodotte sul nostro territorio. Subito dopo, però, tornerà a mettere le mani avanti. Infatti sui social ha subito postato la sezione del futuro Deposito Nazionale così come concepito dalla Sogin, la società cui spetta il decommissioning atomico: “Sarà un edificio di oltre dieci metri sotto terra. Quale dovrà essere il livello massimo della falda sottostante perché un’area possa ritenersi adatta?” Già, da dove parla lui il problema dell’acqua non è questione da poco. In quella fetta di Piemonte ci sono Trino e la sua vecchia centrale ormai smontata, Bosco Marengo, Tortona e Saluggia, che “ospitano” lo stoccaggio, pur se “provvisorio”, della maggior parte dei rifiuti radioattivi del Paese, l’80 per cento circa. E li ci passa la Dora Baltea, poco sotto scorre il Po, si diramano i canali per le risaie, ci sono i pozzi dell’importante Acquedotto del Monferrato (111 comuni consorziati, 12 km quadrati di territorio). Una storia che Godio conosce bene avendo lavorato a Eurex, impianto degli anni ‘60 per il recupero dell’uranio arricchito di Enea che finì per attrarre barre di combustibile da tutto il mondo e fino al 2000 non era neppure segnalato sulle carte ufficiali. Lui c’è stato dal 1969 al ‘94, come responsabile dell’automazione del centro di calcolo. E ricorda l’entusiasmo iniziale di chi vedeva occupazione e prestigio scandire le fasi di progettazione e realizzazione di una struttura in cui tecnologie d’avanguardia consentivano di recuperare l’uranio 235 e, più tardi, anche il plutonio 239 dalle barre da sciogliere e smaltire. In effetti arrivò materiale pericoloso fin dal Canada, quindi i rifiuti dalle nostre centrali chiuse, da Garigliano a Latina. Ma adesso Godio non si fida e, alla testa di Pro Natura e altri movimenti non solo ambientalisti, è andato a spiegare ai consiglieri regionali piemontesi che “proprio l’esperienza vissuta nei decenni passati, costretti in verità a sopportare rischi gravissimi per i collocamenti altamente pericolosi 

in luoghi per nulla appropriati deve indurci a pretendere, per la scelta del Deposito unico nazionale, oculatezza, oggettività, trasparenza”. Come dire: verifichiamo pure la idoneità dei siti individuati dalle nostre parti, da Carmagnola a Quargnento Castelletto, a Sezzadio Castelnuovo, a Frugarolo, Novi Ligure; ma noi… “abbiamo già dato”, abbondantemente. Del resto, Rubbia stesso, quand’era presidente dell’Enea, ha più volte avvertito della catastrofe possibile se solo le ricorrenti alluvioni autunnali avessero stravolto quei siti di stoccaggio provvisorio. 

E pensare che l’ex ministro all’ambiente Sergio Costa s’è speso in prima persona per assicurare la bontà e trasparenza delle scelte indicate sulla mappa finalmente svelata. “Il 5 gennaio – ha scritto agli italiani – è stato tolto il segreto alla Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee… ed è iniziata la più grande consultazione pubblica degli ultimi anni: 44 mesi, tre anni e mezzo, per discutere con tutti i cittadini su come procedere al meglio”. Lo pretende l’Europa, dove già si contano una decina di depositi simili. Siamo in ritardo estremo. Dobbiamo rimediare. A parte la questione dell’eredità pesante delle nostre vecchie centrali , dobbiamo stoccare i nostri rifiuti radioattivi a bassa e media attività provenienti da laboratori e ospedali, dall’industria, ecc. Sono 67 le zone possibili individuate dai tecnici in cui scavare eventualmente la “tomba”; fuori dai siti Unesco, ovviamente, dai parchi nazionali, dalle riserve naturali. 

Ma basta un’occhiata alle pagine Facebook per scorrere centinaia di post “no scorie, no deposito”, da ogni regione, da mille comuni. Tornano alla memoria i giorni della rivolta di Scanzano. C’era Berlusconi al governo e un generale, Carlo Jean, a capo della Sogin. La scelta di imporre alla Basilicata il sepolcro nazionale radioattivo, senza neppure un momento di confronto con le amministrazioni locali e le loro diverse articolazioni, scatenò la serrata di quella Regione, posti di blocco, sito presidiato giorno e notte. Anche la Basilicata, con la presenza del centro Enea a Rotondella della Trisaia e le vicende oscure di traffici dall’estero proprio di materiale nucleare da riprocessare, non si fidava e, soprattutto, riteneva di aver già pagato ampiamente il suo conto di contributo alla collettività nazionale, anche con le estrazioni petrolifere. Finì col dietrofront governativo e la necessità di ricominciare tutto daccapo. 

Adesso le condizioni sono altre, c’è stato se non altro un processo democratico, si passa attraverso il “Debat publique” che tanto invidiamo ai francesi. Ed ecco dalla Toscana levarsi allora l’altolà di Italia Nostra: “Fra i siti potenzialmente idonei avete inserito anche le Crete senesi. Quali carenze culturali hanno armato la mano di chi ha tracciato in una planimetria quella piccola macchia verde dall’aria inoffensiva ma terribile come l’anomalia in una Tac? Si tratterebbe di un tumore in seno ad un territorio che tutto il mondo viene ad ammirare”. Protestano con argomenti non meno forti dalla Sicilia alla Sardegna, dalla Tuscia alla Puglia e via elencando, con alla testa talvolta gli stessi presidenti di Regione come Michele Emiliano da Bari e Christian Solinas da Cagliari. E la stessa Coldiretti alza paletti: “La scelta dovrà tutelare la vocazione dei territori in un paese come l’Italia che può contare sull’agricoltura più green d’Europa”. 

L’opera, d’altronde, spaventa, pur con tutte le garanzie promesse: una buca rettangolare da 110 ettari (200 campi di calcio), un cilindro in acciaio al cui interno vengono collocati e cementati 5 barili di rifiuti radioattivi ultra compressi; un “modulo” in calcestruzzo speciale in cui trovano posto 4/6 manufatti, riempito a sua volta di cemento; la “cella”, un edificio in cemento armato di oltre 10 metri che ospiti alcune centinaia di “moduli” e resista per 350 anni almeno. Sopra, infine, la “collina multistrato” a coprire le 90 celle del deposito, anti erosione e anti corrosione. 

Dunque, bene la partecipazione, bene l’avvio di un percorso di condivisione ad ampio raggio, articolato e strutturato, bene la decisione di uscire dagli escamotage che dirottavano all’estero cifre da capogiro insieme alle scorie da ritrattare e accogliere temporaneamente, con viaggi andata/ritorno spesso misteriosi e sempre rischiosissimi. Ma, che fare, davvero? Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, è convinto si debba uscire dalle varie sindromi “non nel mio giardino, non nel mio collegio elettorale, ecc” procedendo alla scelta condivisa del sito unico per le scorie a media attività e, visto le tutto sommato limitate quantità di rifiuti molto radioattivi, che peraltro non produrremo più grazie allo stop referendario dell’87 al nucleare, che il governo si adoperi per trovare al più presto un accordo col resto dell’Europa per rintracciare tutti insieme la località più adatta a seppellirli, fuori dall’Italia. Anche Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola e una vita sul fronte ambientalista, riconosce finalmente un po’ di trasparenza e il tentativo di sanare una situazione non più tollerabile, quella ventina di siti di stoccaggio (per 33 mila metri cubi di scorie) da Latina a Caorso, dalla OPEC di Casaccia all’Ispra di Varese, oltre a quelli già citati, quasi tutti inadeguati e insicuri per cui l’Italia è pure sotto inchiesta europea. Un capitolo che andrebbe chiuso, definitivamente, entro il 2025, come previsto a suo tempo, dopo operazioni di smantellamento per 6,48 miliardi di euro, ma già fatto slittare a fine 2036, con oltre un miliardo in più da spendere. “Adesso si è iniziato un cammino di partecipazione che durerà anni e che vedrà la conclusione solo se lo Stato avrà la forza e il coraggio di guidarlo”, commenta Realacci.

Sarà Mario Draghi, col suo nuovo esecutivo, a pilotare d’ora in poi la questione; ma non potrà né forse vorrà rallentare alcunché, affrontando le comunità coinvolte, fornendo risposte, spendendosi con gli altri Paesi per strategie di soluzione sempre più unanimi. 

Dal Piemonte, intanto, Gian Piero Godio offre puntualizzazioni e correzioni: si scelga il Deposito unico nazionale tenendo conto “della minimizzazione dei trasporti e dei rischi ad essi associati; si scartino, ad esempio, i luoghi da raggiungere via mare, si cerchi la posizione più baricentrica rispetto alla attuale dispersione dei rifiuti radioattivi, si tenga conto dei criteri già prefissati dalla Guida tecnica 29 di Ispra e validati a livello internazionale”. 

Non che nel resto del mondo le cose vadano poi troppo diversamente, i rifiuti radioattive rappresentano un incubo planetario. Sviano i titoli dei giornali, talora. Come qualche giorno fa, quando, presentando la mappa italiana dei siti, ci fu chi scrisse: “In  Giappone ci sono due paesini che vogliono le scorie nucleari”.  Si tratta di Sutton e Kamaoenai, spopolati villaggi di pescatori dell’Hokkaido, attratti dai super sussidi statali (in soli due anni otterranno fino a 2 miliardi di yen, pari a 15,8 milioni di euro). Ma, a leggere fino in fondo l’articolo, si scopre che non tutti gli abitanti sono d’accordo, che molti hanno protestato contro i sindaci chiedendo addirittura un referendum, che qualcuno ha pure lanciato un ordigno contro la casa di un esponente del comune. Si discute e si promette: “Useremo i soldi che arriveranno per una centrale eolica in mezzo al mare, faremo investimenti che ritorneranno a vantaggio dei nostri figli”. Ma lo stesso governatore dell’Hokkaido, Naomichi Suzuki, s’è messo di traverso tirando fuori un’ordinanza del 2000 secondo cui nessun tipo di rifiuto nucleare può sostare sul territorio della regione. Punto e a capo. Era già successo in passato, quando il sindaco di Toyo, sull’isola di Shikoku, candidò il suo comune a ospitare il deposito geologico nazionale; tre mesi dopo perse le elezioni e il nuovo e,etto ritirò precipitosamente la candidatura.

Beppe Rovera