Quarant’anni fa, il 31 maggio 1982 (anno dei mondiali in Spagna), dopo una malattia incurabile, moriva mio papà Gabriele. Il morbo l’aveva colpito tre anni prima, e i medici gli avevano dato poche speranze. Era nato ad Asti nel 1938, aveva 43 anni. 

Nonostante avessi 9 anni ho di lui bellissimi ricordi, brevi flash di vita quotidiana. È lui che mi accendeva il televisore per vedere Goldrake, con lui completammo il primo album di figurine di Actarus e saga. Conservo diverse foto con lui al mare e una a Castelnuovo Don Bosco, seduti su una panchina con a fianco la sua elegante Volkswagen blu, dove giro una palla di vetro con la neve che scende lenta sulla cascina dove nacque il santo. Fu lui che mi portò a vedere i primi film al cine Vittoria in corso Dante: tra questi ricordo “Innamorato pazzo” e “Superman”. Rivivo alcuni frammenti a tavola con mamma e papà. L’ultima volta che lo vidi, a letto, esclamò in piemontese: «Ë ‘l mè fieul». 

Qualche anno fa sono stato a pranzo con gli ex compagni geometri del Giobert di mio papà. Mi hanno raccontato aneddoti su di lui. Il funerale fu celebrato a San Silvestro da don Rodolfo Piglione. Don Beppe Gallo, che servivo da chierichetto in Duomo, sarebbe giunto in parrocchia l’anno successivo.

Figure paterne di riferimento

Mi è capitato talvolta in questi anni, probabilmente perché non mi sono sposato, di sentirmi dire: «Forse ti è mancato un padre». Riflettendoci su, ho sempre risposto che di figure paterne, in realtà, ne ho avute più d’una. Un riferimento importante, nei cinque anni di collegio salesiano, è stato senz’altro don Dante Caprioglio, preside del glorioso collegio San Carlo e grande tifoso della Juve (un passato da giocatore con Boniperti). Lo stesso don Giuseppe Gallo, mio parroco dalla cresima a oggi (don Piglione mi impartì il Battesimo). Mons. Francesco Bellando e don Franco Tonda, parroci di Sant’Ippolito a Bardonecchia, chiesa cui devo la fede. Potrei continuare, per i periodi estivi, con don Aquilino Molino e don Angelo Fasolio, indimenticabili figure legate alla Colonia astigiana “Porta Paradisi” di Bardonecchia. 

Ci siamo conosciuti tardi

Tra queste figure fondamentali, un posto altissimo nella mia vita è stato occupato da don Vittorio Croce. In fondo l’avevo conosciuto tardi, don Croce. Il Collegio di Borgo San Martino, in diocesi di Casale e provincia di Alessandria, mi aveva tenuto lontano dalla diocesi Astense. Poi ci fu l’anno di servizio militare, che mi portò ancora più lontano. Nel settembre 1993, quando Wojtyla venne ad Asti, mi trovavo alla caserma Cernaia a Torino. Proprio il giorno in cui il Papa incontrò i giovani al palazzetto dello sport, in qualità di capo squadra, dovetti guidare il cambio della guardia alle due compagnie composte da mille soldati.

Don Croce lo conobbi soltanto nel 1998, alla vigilia del centenario di Gazzetta d’Asti, settimanale cattolico fondato nel 1899. Mi presentai in redazione, all’epoca situata nel corridoio oggi occupato dalla Biblioteca del Seminario in piazza Catena, per proporgli “Cent’anni fa”, una rubrica che andava a pescare vecchi pezzi nell’archivio storico del giornale. Da quel momento non ci siamo più persi di vista.

Bastava uno sguardo

Don Croce è stato il padre che non avevo e che avrei voluto avere. Un padre anche severo all’occorrenza. Quando dicevi qualcosa che non andava, era sufficiente un suo sguardo serio e penetrante per capire che non era il caso. Una volta, durante una campagna elettorale, scrissi a La Stampa una lettera dal titolo “La Chiesa si occupi di Gesù non di candidati a sindaco”. Don Croce rivestiva in quel momento anche il ruolo di vicario generale. Per qualche settimana, due o tre mesi, i miei pezzi su Gazzetta furono congelati. Poi un giorno apparve un articolo sulla Madonna del Portone. Era il segnale che ero stato perdonato.

Incontri cimiteriali

In oltre vent’anni di collaborazione, don Croce ha sempre appoggiato ogni mia iniziativa culturale. Bastava accennargli un progetto e lui capiva subito la situazione. La prima volta fu per stampare la biografia di mons. Umberto Rossi, vescovo di Asti, cui il presidente Carlo Azeglio Ciampi volle insignire di medaglia al valor civile alla memoria (2003). Poi non so quante volte ho trascinato don Croce al cimitero: ora per commemorare don Michele Gallo, storico cappellano e meteorologo (16 maggio 2004); ora per tessere la storia della tomba dei sacerdoti (il lotto è stato ristrutturato recentemente); quindi per presentare la “Guida al percorso storico” (15 aprile 2007) o per assistere al concerto pinkfloydiano di “Ondesferiche” (10 aprile 2011). Don Croce era sempre presente. Solo l’ultima volta, per l’inaugurazione e benedizione della tomba Spagnolini-Bosia nel maggio 2019, non riuscii a convincerlo. Probabilmente aveva già saputo della malattia.

Bocce benefiche e Colonia Astigiana 

Fu il primo sacerdote, primo anche tra vescovi, a inaugurare le “bocce benefiche” ideate dal geometra Delio Ruscalla; il primo a essere invitato a Bardonecchia per la festa patronale, riallacciando così il vecchio legame tra parrocchia e colonia astigiana. Dopo di lui arriveranno i vescovi Francesco Ravinale e Edoardo Cerrato, sino al cardinale Angelo Sodano, per il 60.mo di fondazione della colonia (luglio 2010).

Don Croce era un sacerdote eruditissimo, ma anche un sacerdote che sapeva ascoltare. Un «prete per chiacchierar», per dirla alla Paolo Conte, rovesciando però il senso di una sua celebre prosa. 

Sono sicuro che se chiedessi a tante persone che l’hanno conosciuto, anche meglio di me, le donne della redazione, per esempio, ma anche collaboratori e parrocchiani/e, direbbero la stessa cosa.

Come Don Bosco

Enzo Armando, giornalista e capo redattore della Gazzetta d’Asti, che ha passato tante ore con lui in redazione, mi rivelò, poco dopo la morte di don Croce, che si era avvicinato e stava studiando, negli ultimi tempi, la figura di un grande santo sociale piemontese e astigiano: Giovanni Bosco. In precedenza, aveva dedicato molti anni allo studio del cardinale Guglielmo Massaja, “Apostolo dei Galla”, nativo di Piovà d’Asti (dal 1940 Piovà Massaja). Cos’era Don Bosco se non “Padre ed amico”, come recita una celebre preghiera a lui dedicata?

La direttrice nata a Settime

Qualche giorno fa ho dovuto recarmi negli uffici postali di corso Dante ad Asti per una pratica di Spid (identità digitale). Non funzionando un meccanismo ho chiesto aiuto alla direttrice della filiale, Carmelina Grassi, che conosco dagli anni Novanta. In breve ha risolto il problema, poi fermandoci un po’ a parlare mi ha chiesto se collaboravo con giornali. Quando le ho risposto «Gazzetta d’Asti da oltre vent’anni», ha esclamato con gioia: «Allora hai conosciuto Don Croce. Era il mio parroco a Settime. Gli trascrivevo a computer le sue lettere scritte a mano. Facevo catechismo e ho partecipato a tante estati ragazzi. Sono nata a Settime».

Un vicario a San Secondo

Quando divenne “Vicario generale” della diocesi (2001), nominato da padre Francesco, don Croce ebbe tra l’altro l’incarico di celebrare la Messa vespertina del sabato sera nella chiesa di San Secondo ad Asti. Da qualche tempo la mia parrocchia, San Silvestro, si era unita pastoralmente con San Secondo e Santa Maria Nuova. Fu quindi normale, da quel momento, che presi a servire messa a don Croce; sino agli ultimi mesi del 2019 quando, visivamente, iniziò ad accusare i primi disturbi: blocchi improvvisi di memoria. 

Come nelle manifestazioni culturali, anche qui don Croce mi lasciava ampio spazio: cantare, leggere, affiancarlo alla Comunione. Per me era un onore servirlo, perché oltre ad essere vicario e direttore della Gazzetta, era anche un fine teologo. Qualche anno prima avevo partecipato a tutte le sessioni di studio (tre anni!) in Seminario della scuola teologica per laici, dove lui insegnava la difficile materia attraverso le sue numerose pubblicazioni.

L’ultima Messa

L’ultima volta che ho servito Messa a don Croce, la ricordo molto bene. È stata anche l’ultima volta che ci siamo visti. Era venerdì 29 febbraio 2020. Una settimana dopo sarebbe scoppiato il lockdown (8 marzo). Sono andato a trovarlo in ospedale Card. Massaja ad Asti, dov’era ricoverato da alcuni giorni. «Finalmente!», mi ha detto. Ho capito che mi stava aspettando. Era seduto sul letto, in pigiama blu chiaro; non indossava i suoi “capelli” grigi e neri, ma una cuffia. Abbiamo parlato di tanti argomenti per oltre un’ora; era lucido e in vena. Giunta l’ora della cena, intorno alle 18-18.30, ci ha raggiunto il cappellano dell’Ospedale, don Giancarlo Iraldi, che dopo aver recitato alcune preghiere e impartito la benedizione del Cielo, ci ha somministrato la Comunione.

Qualche settimana dopo, il 27 aprile 2020, in piena “clausura” pandemica, ci è giunta la notizia, inaspettata e improvvisa nonostante la malattia, della sua morte. È stato uno shock per tutti, anche per non averlo potuto salutare al funerale. Saremmo stati in tanti, con partecipazione (una parola di Gaber, “partecipazione”, che don Croce amava e citava spesso) viva e commossa. Con la sua scomparsa abbiamo perso un padre. Che alcuno proferisca mai più quella bugia che i sacerdoti, non essendo sposati e non avendo figli, nulla capiscono di paternità e di amore.

Stefano Masino