L’abbazia di Santa Maria a Vezzolano è stata ufficialmente inserita nel progetto dei percorsi europei della “Transromanica”, l’associazione internazionale riconosciuta dal Consiglio Europeo  come “Major European Cultural Route”. L’obbiettivo dell’associazione è di porre l’accento sull’unità culturale e artistica del Romanico in Europa. Lo scopo è anche di preservare il patrimonio romantico.

La regione Piemonte, oltre al complesso artistico astigiano di Vezzolano, ha proposto la candidatura nella “Transromanica” anche della Sacra di San Michele in Valle Susa, Sant’Evasio a Casale Monferrato, il Sant’Andrea a Vercelli e il San Giulio ad Orta. L’iniziativa regionale, sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Asti,  volta alla valorizzazione dei nostri territori sarà illustrata sabato prossimo 24 gennaio alle 10,30 a Vezzolano.

Cenni storici: Dell’abbazia di Santa Maria di Vezzolano, il più famoso monumento romanico astigiano, si conosce una sola data certa: il 1095, anno cui si riferisce il primo documento ufficiale che menziona la prepositura di Vezzolano. Come dire che nel 1995, il magnifico complesso abbaziale ha festeggiato i novecento anni, se non di vita (la fondazione della chiesa deve essere anteriore), quantomeno della sua presenza anagrafica e documentata. Le origini della costruzione si perdono fra ipotesi storiografiche e leggende popolari. E’ un’ipotesi accreditata, per esempio, che la chiesa sia nata come cappella privata di un castello poi distrutto; oppure che esistesse già, in forme e dimensioni diverse, nell’VIII secolo. E’ leggenda, ma di quelle suggestive e difficili da eludere, l’attribuzione della sua nascita alla volontà imperiale di Carlo Magno. Si narra infatti che questi, cacciando nei boschi presso Albugnano e assaporando la recente vittoria sui longobardi Desiderio e Adelchi, nel 1774, fu colto da un’orribile quanto importuna visione: la danza macabra di scheletri umani, spaventosa causa dell’imperiale epilessia. Guarito per intercessione della madonna, Carlo Mango avrebbe disposto l’edificazione dell’abbazia. Altra data certa è il 1159, anno in cui Fedrico Barbarossa la prese sotto la sua protezione, tanto è vero che, sul finire del secolo, Vezzolano diventò una delle più ricche e celebri prepositure. Nel XIV secolo cominciò il declino, l’abbazia fu abbandonata dai canonici agostiniani intorno al ‘600, soppressa nel 1787, dichiarata bene nazionale nel 1800 dal governo francese. Nella sua storia più recente figurano una dichiarazione di pubblica utilità, una messa all’asta, il passaggio di proprietà dell’edificio, e della terra pertinente, all’Accademia dell’Agricoltura e, in ultimo, nel 1937, la sua cessione definitiva allo Stato. Tutte queste pagine di storia e leggenda non sono riuscite comunque mai ad intaccare l’imperturbabile silenzio e raccoglimento della chiesa. Che, tuttora, ha uno dei suoi motivi di fascino nello splendido isolamento che la connota, là, al declino dolce di una valle, seminascosta da colline e prati, in una quiete bucolica sospesa, raggiungibile al termine di una strada che pigramente la costeggia e consente di apprezzarla prima dall’alto nell’armonia della sua distesa di coppi e del complesso absidale, quindi nell’eleganza del campanile collocato sul lato sinistro, come vuole il romanico, e, infine, nell’impostazione di tempio monumentale della facciata. Premesso che il complesso abbaziale, proprio per la sua straordinaria rilevanza artistica, è difficilmente ammirabile sgombro da ponteggi e cantieri di restauro, va detto che Vezzolano è bellissima. La facciata romanico-lombarda, costruita in cotto e in arenaria, è ravvivata da tre ordini di loggette cieche. Sul portale strombato c’è un bassorilievo di pietra dolce a lunetta, rappresentante la vergine in trono con la colomba dello spirito santo, l’arcangelo Gabriele e un devoto. A sinistra un’altro bassorielievo raffigura Sant’Ambrogio. La facciata è decorata da capitelli e statue: il redentore con Michele e Raffaele, quindi due serafini o cherubini e piatti in terracotta decorata, o parete, simbolo dell’ospitalità; romanico è il semplice campanile, tranne l’ordine superiore; le fiancate e le absidi, decorati da cornici e archetti pensili, sono nella loro antica dissimetria un tutto molto armonico. L’interno è in forme gotiche precoci di derivazione francese. A pochi passi dal portale si ammira uno degli elementi di massimo interesse dell’edificio: il nartece (altrove anche detto jubé alla francese), o ambone, che attraversa tutta la navata maggiore. E’ una specie di porticato, poggiante su cinque arcate sorrette da colonne con capitelli a foglie e a gemme, sul quale si distende un bassorilievo a due fasce che racconta i trentacinque patriarchi antenati alla Vergine. Il colore è azzurrognolo, sembra dipinto con smalti, invece è di calcare lucido. Ai piedi del bassorilievo, a caratteri incerti, si legge che l’opera fu compiuta “regnando Federico Barbarossa, l’anno 1189”. Sono molte le interpretazioni sulle finalità del nartece: la più accreditata fa riferimento alla liturgia antica di separare, in chiesa, i battezzati dai catecumeni; un’altra propone la necessità della divisione, persino nei luoghi di culto, fra nobili e popolani, Sovrasta l’altare un trittico quattrocentesco realizzato in terracotta policroma. Rappresenta la vergine col bambino; a destra Sant’Agostino, a sinistra una figura barbuta accompagna un devoto inginocchiato in abiti regali (ancora la leggenda ama riconoscere in tale figura Carlo Magno, mentre studi più recenti propendono per Carlo VIII re di Francia). Dalla chiesa, attraverso una minuscula porta, si accede al chiostro, un angolo di silenzio conservato nei secoli, simbolo dell’antica pace cenobitica. Spiccano bellissimi capitelli variamente scolpiti con fregi sia classici sia complessi, come quelli recanti scene dell’annunciazione, della visitazione della vergine, della nascita del redentore. C’è la rappresentazione di un uomo che dorme e di un altro che scrive: per taluni è la raffigurazione del sogno di San Giuseppe.
Nel porticato del chiostro, lato nord, campeggia il più importante affresco di Vezzolano, una delle più note pitture del Piemonte antico, datata XIV secolo. La raffigurazione è divisa in quattro parti: dall’alto il redentore con gli emblemi degli evangelisti; Betlemme con la sacra famiglia ed i magi adoranti.
sotto, in posizione centrale, c’è la sezione più affascinante dell’affresco: da un sepolcro scoperchiato si rizzano tre scheletri, un personaggio inorridito (Carlo Magno?) sta davanti a due cavalieri esterrefatti, mentre un monaco lo invita a chiedere aiuto alla madonna. E’ ancora la leggenda della fondazione imperiale di Vezzolano, o è, piuttosto la tradizionale raffigurazione del contrasto dei tre vivi e dei tre morti, oveero del medioevale trionfo della morte! Ci sono poi alrti resti di affreschi, figure di santi, guerrieri e cavalieri, simboli nobiliari ed emblemi degli evangelisti, sulle cui attribuzioni si sono cimentate più scuole di pensiero.
Lasciata la luce del chiostro, la sua solarità e gli abbagli degli affresci in parte ancora misteriosi, si entra nella foresteria, un ambiente dal ricco soffitto in legno e dalle minuscole finestre a feritoie, recentemente restaurato, dove si può ammirare la Mostra permanente del Romanico allestita dalla Sovrintendenza alle Belle Arti del Piemonte.

(fonte: Comune di Asti)