Un termine che pochi conoscono ma un concetto che può aiutare a dare risposte a molte questioni che determinano l’attuale condizione mondiale. Francesco Ghia, professore associato di Filosofia Morale al dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento ne ha fatto un libro, “Principio di apocatastasi. La vita restituita come postulato di una filosofia morale” (Ed. Morcelliana) che verrà presentato oggi, venerdì 7 giugno, alle 17.30, al Foyer delle Famiglie di via Milliavacca nell’ambito della quarta edizione della rassegna culturale “Senza perdere la tenerezza”, organizzata dalle Acli con i fondi dell’5×1000. Ne parliamo con l’autore che oggi discuterà dell’argomento con Carlo Pertusati, docente di Patristica.

Perché è importante un libro sull’apocatastasi?

“Sarei presuntuoso se lo dicessi io. Posso dirle che è un tema importante per me, che da un po’ di anni mi inseguiva e mi interpellava per varie ragioni. Innanzitutto perché nel momento in cui ragioniamo filosoficamente su questioni che riguardano il destino dell’uomo e della donna in rapporto alla sfera trascendente del divino la domanda quale tipo di rappresentazione di dio abbiamo si pone necessariamente. Nella rappresentazione del divino il principio metodologico fissato da Platone nel Secondo Libro della Repubblica risalta quell’idea di Dio che deve essere emendata da tutte le rappresentazioni non divine di Dio. Platone esclude dalla sua città ideale i poeti che descrivono gli dei dell’Olimpo facendo fare loro le cose peggiori. Insomma descrivono un Dio peggiore degli uomini, ma ci bastano gli uomini peggiori. Quindi si pone la questione del dover pensare divinamente un dio. Ma cosa significa? Da un punto di vista morale ho pensato a un dio che avesse caratteristiche di una persona, pensare a un dio accogliente è più divino che pensare a un dio giudicatore e crudele. Ho concluso il libro con un espressione del filosofo novecentesco italiano Adolfo Levo: “Se un dio esiste che abbia pietà di noi”. Ecco penso a un dio all’insegna della pietà e della misericordia nei confronti di un’umanità che fa fatica a darsi delle regole anche di convivenza. Spostandosi sul piano di una teologia della retribuzione, del rapporto cioè tra giudizio da emettere sulle colpe commesse, si pone la questione se ci si possa dare una colpa umana per quanto enorme e terribile è stato commesso. Un colpa umana talmente infinita da meritare appunto una pena infinita. Mi spiego, Esistono colpe tanto gravi da meritare una pena eterna senza possibilità di redenzione? E’ possibile riparare al male dopo eventi come la Shoah? Ho trovato interessante l’analogia tra la teologia e il diritto. L’evoluzione storica del diritto penale ha determinato la dimensione di proporzionalità tra colpa e pena. Ora si parla di un cammino di riparazione rispetto alla pena compiuta, tanto che molti stati hanno abolito la pena di morte. Lo percepiamo come qualcosa che moralmente parlando ci sembra un progresso rispetto a quelle visioni che enfatizzano l’aspetto punitivo. Allora su questa base perché non postulare che ciò che vale per un giudice umano non possa valere anche per un giudice divino? Anche un giudice divino nel momento in cui giudica lo fa secondo un criterio di proporzionalità tra colpa e pena”.

Ma cosa è l’apocatastasi?

“Dall’originario significato astronomico, il termine “apocatastasi” passa a indicare, entro una visione ciclica della storia, la teoria per cui, alla fine dei tempi, tutte le creature saranno reintegrate nell’ordine armonico voluto da Dio al momento della creazione. Si accende così la speranza in una salvezza universale, che non cancella la tragicità e il peccato dell’esistenza individuale, ma la riabilita in un più ampio orizzonte di senso, nel giorno in cui Dio sarà “tutto in tutti”. Se Dio deve essere pensato, se il mondo deve essere sanato nelle sue contraddizioni e se come è nell’idea delle religioni, nel regno di dio le contraddizioni sono sanate, allora come pensare il rapporto tra beatitudine e dannazione? Che significato attribuire all’inferno? Queste domande implicano anche ripensamento della teorie del Purgatorio. Diventa così difficile pensare una progressione del tempo all’interno dell’eternità, ma l’alternativa è peggiore: la dannazione eterna. Viene così messo in discussione i paradigma del fine pena anche dal punto di vista ultraterreno”.

Ci sono esempi concreti di come il principio della misericordia e del perdono possano essere applicati in contesti non solo di fede?

“L’idea del perdono e della misericordia sono gli aspetti più interessanti di commistione tra concetti teologici e concetti giuridici. In campo giuridico si può tradurre il principio di misericordia con la mitezza. Ma anche come vocazione da parte della comunità civile e politica della vendetta privata in vendetta pubblica.  Ai miei studenti faccio sempre questo esempio: se io ho una controversia con un vicino di casa e lo porto in cantina e lo chiudo dentro una settimana, questo è sequestro di persona. Se dopo il processo un individuo viene invece tradotto in carcere dall’autorità pubblica questa è un’operazione lecita e consentita. La sanzione cioè è spostata alla comunità nel suo complesso. Progressivamente nei secoli la razionalizzazione del diritto ha fatto sì che si sia pervenuti alla consapevolezza che non è la crudezza della pena a essere efficace, piuttosto la certezza della sua esecuzione. Accanto a questo principio si è affermato principio di funzione rieducativa della pena. Questo è un buon modo di leggere in chiave laica una funzione di perdono e misericordia. Teologicamente la misericordia è un atto in cui si da un passo indietro rispetto alla volontà vendicativa e il perdono è un atto rigenerativo. In questo senso il principio religioso e teologico ha notevoli applicazioni dal punto di vista laico.

L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 7 giugno 2024

Stella Palermitani