Era il 29 agosto di 66 anni fa quando a Santa Libera (provincia di Cuneo) si consumava una delle pagine relativamente meno note della storia del secondo dopoguerra. Una sessantina di uomini fra ex-partigiani e ausiliari, partiti nella notte del 20 agosto 1946 e guidati da Armando Valpreda, fa ritorno ad Asti tra gli applausi scroscianti della folla. Sono i cosiddetti “ribelli di Santa Libera”, un gruppo organizzato che qualche giorno prima ha rimbracciato le armi per muoversi compatto verso un’antica torre situata sulla vetta di una collina nella piccola frazione di Santo Stefano Belbo, che diventerà di lì a poco il quartier generale della protesta.
La rivolta viene innescata dalla notizia dell’allontanamento dalla polizia di Asti del capitano Carlo Lavagnino, comandante delle forze armate locali ed ex garibaldino. Ad esasperare ancor di più gli animi è la decisione presa dall’allora ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, di concedere l’amnistia per i reati politici commessi dopo il 25 aprile 1945. Il provvedimento era nato con l’intento di tutelare i partigiani che si erano macchiati di delitti dopo la Liberazione ma nella pratica si tramutò un salvacondotto per quasi 7000 ex fascisti, finiti in carcere durante il processo di epurazione successivo alla fine del conflitto bellico. Il caso Lavagnino rappresenta quindi – secondo i resistenti – un caso di “controepurazione”, con i militanti partigiani allontanati dalla polizia e dalle amministrazioni pubbliche. Il Governo, nella figura dell’allora vicepresidente del consiglio Pietro Nenni, preoccupato che l’insurrezione di Santa Libera si potesse diffondere su tutto il territorio italiano decide di aprire una trattativa con i ribelli e fissa un incontro per il 24 agosto; il 28 viene emanato un decreto governativo che prenderà in considerazione le rivendicazioni a favore di partigiani, reduci e familiari dei caduti. Alcune richieste resteranno tuttavia fuori dal decreto, come l’abolizione dell’amnistia. I fatti di Santa Libera saranno ricordati nella storia come un preciso come atto di forza dei partigiani che riuscirono a mettere in scacco il governo presieduto da Alcide De Gasperi, il quale bollò la protesta come “un deplorevole episodio che ha turbato la norma di disciplina e di ordine necessari al paese come non mai”.
Abbiamo intervistato il partigiano Giovanni Gerbi (nome di battaglia “Reuccio”), ultimo testimone di Santa Libera, per farci raccontare con gli occhi di chi l’ha vissuta cos’è stata la Resistenza e come vive l’attuale stato di diritto da ex combattente.
Signor Gerbi, sono passati ormai 66 anni da quel 29 agosto che segnò una pagina storica per l’Astigiano. Ci racconti i momenti e gli aneddoti che le sono rimasti maggiormente impressi di quell’esperienza.
Gli aneddoti legati a quella rivolta armata di 35 partigiani, che diede il via a tanti movimenti simili in tutto il Centro-Nord, sono tanti ed esplicitamente così importanti che ho deciso di dedicare un apposito capitolo del libro che sto per concludere e che dovrebbe intitolarsi “Asti rivoluzionaria, movimenti della resistenza”, con sottotitolo “Cento anni di lotte e sofferenze della classe operaia partigiana nella trappola del trasformismo piccolo borghese dei capi del PCI”. ? ?
Crede che ancora oggi siano in pericolo i diritti fondamentali, la libertà e la giustizia, come nel dopoguerra?
Oggi sono in pericolo tutti i diritti e non solo quelli di libertà e giustizia. La situazione è frutto delle contraddizioni create dal sistema capitalista che si è dimostrato insensibile alle esigenze delle masse; l’unica soluzione per eliminare questi problemi è eliminare il Sistema stesso. ? ?
Alcuni studiosi parlano di “storia negata” riferendosi ai presunti eccessi di violenza operati dai comunisti partigiani e mai raccontati sui libri. Quanto c’è di vero in tutto ciò?
Da “buon cristiano” praticante quale ero nel 1940 (allievo del Collegio Don Bosco) passo dopo passo sono diventato antifascista, poi partigiano e infine comunista in lotta contro la guerra, la miseria e la violenza del fascismo, espressione armata del potere monarco borghese clericale. Parlare di “eccessi di violenza” nel caso di una guerra, per me, è un’ipocrisia, perché si condanna l’eccesso ma si accetta la guerra.
L’intervista completa verrà pubblicata sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da domani, venerdì 31 agosto.
Fabio Ruffinengo
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