Parlare di diritti nel nostro Paese può apparire scontato, superfluo, non strettamente necessario. Ma in un momento in cui alcuni diritti fondamentali, quali possono essere quelli al lavoro, all’informazione e alla libertà di espressione, vengono pericolosamente messi a repentaglio, forse è più che mai utile affrontare questo tema. E un’opportunità importante per discuterne si è presentata lunedì, in occasione del convegno dall’eloquente titolo “Sui diritti”, tenutosi al Centro culturale San Secondo.
Relatore d’eccezione, il professor Stefano Rodotà, settantasette anni decisamente ben portati e un curriculum invidiabile. Laureatosi in giurisprudenza nel 1955 all’Università La Sapienza, dove è Professore Emerito di diritto civile, ha scritto numerosi saggi e insegnato in molti atenei italiani ed europei, ma anche negli Stati Uniti, Canada e Australia, ricevendo diversi riconoscimenti accademici; vanta inoltre una trentennale attività politica ed è stato presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali.
Introdotto da Giovanni Periale, fondatore e presidente di Ethica (l’associazione che ha patrocinato l’incontro), Rodotà ha esordito con un interrogativo: “Conviene ancora investire culturalmente, socialmente e politicamente nei diritti, oppure, come affermò Bobbio, l’età dei diritti è al tramonto?”. Un quesito al quale il giurista cosentino ha risposto con un’ampia e brillante prolusione, trasversale a ogni riferimento spazio-temporale e ideologico. Perchè quello sui diritti “non è un discorso di destra o di sinistra”, è una questione globale e non particolare.
Il professor Rodotà ha citato, ad esempio, il caso dello scrittore cinese Liu Xiaobo, insignito quest’anno del Premio Nobel per la pace per le sue battaglie civili, ma non ha mancato di guardare al “nostro” Occidente, alle contraddizioni di molte democrazie (“Spesso si corre il rischio di una tirannia della maggioranza”) e delle leggi del sistema economico, spesso tendenti a porre in secondo piano il rispetto dei diritti primari. 
E poi i riferimenti alla nostra Costituzione, “strumento indispensabile che dovremmo imparare ad usare di più”, e ai casi più emblematici dell’attualità italiana, come la vicenda di Eluana Englaro e la spinosa questione del testamento biologico.
Ne abbiamo approfittato per porre qualche domanda al professor Rodotà. “Oggi però non voglio parlare di politica”, è stata la sua condizione. Poi, però, si è sbilanciato.
Professore, in un momento in cui studenti e ricercatori, precari e immigrati sono costretti a salire sui tetti per “farsi sentire”, quanto è importante discutere di diritti in Italia?
“E’ importante, tanto per cominciare, per le ragioni che lei ha citato. La condizione di immigrato riporta all’idea di cittadinanza, che rappresenta l’insieme dei diritti che ognuno di noi dovrebbe vedersi garantiti quale che sia il suo Paese d’origine. Quella del lavoro è poi un’altra questione capitale: oltre ai grandi problemi della disoccupazione e del precariato, il lavoro non è più fondamento costituzionale della Repubblica, bensì una merce che viene acquistata al prezzo più basso. Strettamente connesso a quest’ultimo è anche il diritto all’istruzione e alla formazione. Poi potremmo porre altre questioni; ho citato il caso Englaro, che comporta il problema del rispetto della dignità umana. Ma penso anche al diritto all’informazione, e le cito a tal proposito il “ciclone” WikiLeaks: siamo di fronte alla ridefinizione di un diritto fondamentale, i protagonisti sono sempre meno i giornalisti e i mass media, e sempre più i cittadini”.
E’ quello che lei (in un recente articolo pubblicato su La Repubblica, ndr) ha definito “il potere digitale”…
“Il web ha eroso e redistribuito i poteri tradizionali, favorendo un passaggio degli stessi da pochi soggetti ad una generalità, sempre più globale; in secondo luogo c’è anche una redistribuzione dei poteri all’interno del circuito informativo, per cui oggi una persona, in modo sempre più semplice ed economico, può svolgere e fruire di una serie di attività fino a pochi anni fa appannaggio di pochi professionisti del settore”.
E sul voto di fiducia al governo di questa settimana?
“Non credo che questo voto risolva la crisi indubbia e drammatica del sistema politico italiano. La verità è che i parlamentari eletti sono scelti da poche persone, c’è un uso improprio dei meccanismi istituzionali, che produce sempre più poteri personali, ed è costante l’aumento della distanza tra i cittadini e la politica. Ciò crea inevitabilmente gravi conflitti e malessere sociale”.
Gabriele Musso