Autore e attore, interprete unico per cinque monologhi, cinque protagonisti che si alternano sulla scena con le maschere di Werner Strub: diretto da Marco Sciaccaluga, Vittorio Franceschi ha portato al Teatro Alfieri “A corpo morto”, un testo che egli stesso definisce “confessioni senza confessore“.

Lei ha dichiarato che la drammaturgia contemporanea è chiamata ad affrontare grandi temi, “non storie che si svolgono tra il tinello e la camera da letto ma la vita, la morte, il rapporto con gli altri esseri umani”:  come è giunto a questa conclusione?
“La banalità delle storie che ci vengono raccontate, con rare eccezioni dal cinema e senza eccezione alcuna dalla televisione, ha una ricaduta velenosa sul teatro, inteso come nuova drammaturgia. I grandi autori fin dai tempi antichi, ci hanno indicato la strada: se il teatro è la lente con cui osserviamo e studiamo le impronte della verità, chi fa teatro deve rifiutare la finzione che racconta finzioni. A noi devono interessare le anime, non la foggia dei soprabiti e lo stile dei divani. I dialoghi che per lo più si ascoltano – o che si leggono – non sono drammaturgia ma chiacchiericcio. La Tv ha preso il posto dei rotocalchi. Il teatro deve riappropriarsi del suo spazio e della sua funzione, ricominciando a nutrire la pianticella che è rimasta senz’acqua”.

Un ragazzo, una moglie, un padre, una figlia e un barbone: delle cinque riflessioni di “A corpo morto” quale sente più vicina alla sua sensibilità?
“Quelle cinque riflessioni sono la sintesi di un’unica riflessione, la mia. Per me, quindi, sono autentiche tutte allo stesso modo. Se mi chiede quale personaggio preferisco, allora dico: in quanto attore il barbone, perché teatralmente è il più gratificante, in quanto autore la ragazza, che sento sorella, perché ha la speranza di un riscatto che nasce dal dolore”.

Lei interpreta cinque presenze, cinque sopravvissuti: ma all’altro capo di questo filo ideale c’è qualcuno che se n’è andato per sempre. Qual è il ruolo dell’assenza nello spettacolo?
“E’ proprio l’assenza, in questo caso intesa come perdita, a indurre alla riflessione sotto forma di confessione: in fondo tutti i monologhi dei grandi testi sono confessioni a voce alta. Senza l’assenza questo testo non sarebbe mai nato. L’assenza non ha confini: da Dio a Lucifero, potremmo dire che è l’assenza a muovere il mondo. Anche l’America era un ‘assenza, prima di essere scoperta”.
Marianna Natale