Il commento al Vangelo di domenica 27 luglio (Lc 11,1-13) a cura di Francesco Banaudi

Il discepolo senza nome chiedendo a Gesù l’insegnamento della preghiera introduce ciascuno di noi ad una considerazione sulla verità della nostra alleanza con Dio. Il contenuto delle sue parole è chiarissimo: “Insegnaci come pregare e che cosa è giusto chiedere”. Noi soli non siamo capaci di questo discernimento, né sappiamo come dobbiamo parlare affinché la nostra domanda arrivi a Dio. È chiedendo a Gesù stesso come pregare che noi impariamo. Mentre nel Vangelo di Matteo la preghiera del Pater fa parte della predicazione della montagna (Mt. 6, 9-13), in Luca Gesù è presentato in un qualche luogo intento a pregare. Su questo esempio l’istanza del discepolo si carica di un ulteriore significato: il desiderio di partecipare alla vita che si sta rivelando davanti ai suoi occhi, la stessa vita di Cristo. Ora, la preghiera che Gesù insegna è corta – qui, per giunta, in una versione minima. Non serve, infatti, parlare molto, perché il Padre sa cosa sia opportuno (Mt. 6, 7-8). Il sentiero che percorriamo nella preghiera comincia anzitutto rivolgendosi a Dio con agnizione di figli (Pater») e con assoluta fedeltà a tutto ciò che provenga da lui. La preghiera non è mai, infatti, riflessiva, m si apre sempre al mistero di Dio come una relazione personale. Se essa viene interpretata riducendosi a pura vita psichica, il suo valore è nullo. Quindi si chiede. E chiedendo ciò che Dio stesso ci insegna a chiedere si ottiene. Ma cos’è ciò che chiediamo? «Il dono da impetrare da Dio è il Pneuma, il suo Spirito. Dio dà se stesso. Non c’è da impetrare meno di lui» (J. Ratzinger, La festa della Fede).