Sabato 9 agosto, un gruppo formato da diciotto giovani, tre sacerdoti e il Vescovo Marco è partito da Asti per arrivare in Kenya, dove sta vivendo un’esperienza missionaria in tre città del paese. Infatti, per la prima settimana, i giovani sono stati a Nairobi, nel quartiere e nella parrocchia di Tassia. Successivamente, si sono spostati verso nord, a Nyahururu, ospiti alla St Martin Catholic Social Appostolats e, infine, per gli ultimi giorni, si sono spostati ancora più a nord, a Maralal, dove sono ospiti al St Joseph Allamano Pastoral Centre. Il viaggio durerà tre settimane, fino a mercoledì 27 agosto.

21-27 agosto

Giovedì 21agosto, abbiamo lasciato il centro Talitha Kum e Nyahururu per raggiungere l’ultima tappa del nostro viaggio, Maralal, nel Distretto di Samburu e diocesi che ospita quattordici parrocchie e, tra queste, anche Lodokejec, parrocchia in cui il Vescovo Marco visse tredici anni da missionario. Prima di andarcene, però, ci siamo fermati a vedere le Thomson Falls, cascate alte oltre settanta metri e che prendono il nome da Joseph Thomson, esploratore europeo e prima persona a scoprirle. Dopo aver goduto della suggestiva vista sulle cascate, circondate da una vegetazione verde e fitta, abbiamo proseguito il nostro viaggio verso Maralal. Nel tragitto, ci siamo fermati in un convento di suore a Laikipia, abbiamo visitato il loro centro, passeggiato tra gli animali che allevano e tra gli orti sconfinati che coltivano. Lì abbiamo anche conosciuto le ragazze che vivono nel Girl Child Rescue Centre, centro di accoglienza per ragazze, che ci hanno accolto con una danza tradizionale samburu, indossando le tipiche collane di perline e i caratteristici ciondoli della tribù. Dopo il pranzo, siamo finalmente arrivati a Maralal, al St Joseph Allamano Pastoral Centre, che ci ha ospitati per i nostri ultimi giorni qui in Kenya. Dopo un po’ di riposo e la celebrazione della messa, abbiamo cenato e ci siamo ritirati per la notte. 

Venerdì 22 ci siamo allontanati molto da Maralal per addentrarci nelle zone più incontaminate del Distretto di Samburu. Con il pulmino, abbiamo abbandonato la strada principale per inoltrarci nella savana, circondati da verde sconfinato, leggere alture all’orizzonte e capre e mucche che pascolavano liberamente. Dopo aver percorso un lungo tratto nei campi, ci siamo ritrovati in un luogo isolato e lontano dai centri abitati e dalla strada asfaltata, nella savana più pura. Alcuni tendoni erano stati montati per ospitare la messa che di lì a poco sarebbe stata celebrata. Poco lontano dai tendoni, una capanna di legno e lamiera si ergeva umile tra l’erba: era la vecchia chiesa, in cui la comunità si riuniva, stringendosi all’interno o raggruppandosi fuori. Poco lontano, solchi profondi nel terreno ospitavano le fondamenta della nuova chiesa e con la celebrazione che stavamo per vivere, seguita dall’harambee, che significa “mettersi insieme per realizzare qualcosa”, quindi anche nel senso di “colletta pubblica”, avremmo festeggiato la posa della prima pietra della nuova chiesa del villaggio. La celebrazione, presieduta dal Vescovo Marco e concelebrata da Padre Peter, sacerdote della chiesa di Kisima, è stata animata da canti e balli. La tribù, vestita a festa, con abiti e gioielli tradizionali, ha partecipato con trasporto alla celebrazione, riservandoci una calorosa accoglienza. Anche per noi la celebrazione è stata emozionante, soprattutto perché ci siamo nuovamente trovati in una situazione nuova, in un luogo nuovo, circondati da persone nuove. Ancora una volta, siamo rimasti stupiti e ci siamo sentiti grati di poter godere di esperienze così uniche e di poter conoscere persone nuove, con tradizioni e lingue diverse, che ci hanno accolto nella loro comunità di buon grado, felici di passare del tempo con noi. Dopo la celebrazione, è cominciato l’harambee: diversi gruppi di persone, più o meno numerosi, si recavano all’altare cantando e danzando, per poi esprimere la propria volontà di aiutare la comunità e il villaggio, donando, infine, quello che poteva. Dopo che vari gruppi si sono presentati all’altare per donare, è arrivato anche il nostro turno di lasciare il nostro contributo alla comunità per la costruzione della chiesa. Dopo il pranzo, il Vescovo Marco ha posto la prima pietra nelle nuove fondamenta della chiesa, circondato dalla gioia della comunità. 

Dopo aver salutato la tribù, siamo partiti in direzione della parrocchia di Lodokejek, luogo in cui ha vissuto il Vescovo durante il suo periodo missionario. Abbiamo percorso un tratto di strada, per poi bloccarci: il nostro pulmino non sarebbe riuscito a proseguire a causa del troppo fango. Siamo, quindi, saliti tutti sul cassone posteriore di un pick-up, unendoci il più possibile e stringendoci le mani per rimanere saldi durante il tragitto. Dopo circa un quarto d’ora di strada dissestata, di balzi e sobbalzi nel cassone, di risate e stupore per il viaggio che stavamo compiendo, siamo arrivati alla chiesa di Lodokejek. Padre Marco, nostalgico e commosso, ci ha mostrato la casa parrocchiale in cui ha vissuto, la sacrestia in cui si preparava per le celebrazioni, la chiesa in cui ha celebrato. Ci ha mostrato la scuola lì vicino e il dispensario della parrocchia. Dopo poco, siamo risaliti sul pick-up per tornare indietro e raggiungere nuovamente il nostro pulmino. Tornando al Pastoral Centre a Maralal, abbiamo scorto all’orizzonte un monte appuntito, sulla cui cima saremmo saliti il giorno successivo accompagnati dai giovani samburu della parrocchia. 

Sabato 23 agosto, siamo nuovamente partiti con il pulmino per recarci alla chiesa di Naibor Keju, a una ventina di chilometri da Maralal. Prima, però, ci siamo fermati per qualche minuto a Kisima, uno dei tre centri maggiori della parrocchia di Lodokejek, in cui abbiamo incontrato i primi giovani che avrebbero passato la giornata con noi e la capra che, di lì a poco, sarebbe diventata il pranzo. Arrivati a Naibor Keju, abbiamo conosciuto alcuni giovani samburu e abbiamo chiacchierato con loro, assistendo anche al macello della povera capra, visione che ha lasciato tutti un po’ scossi. Poco dopo, chi con il pulmino chi con il pick-up, siamo arrivati alle pendici del monte Naibor Keju, anche detto Kisima Hill. Il monte, o meglio, la collina, perché alta circa trecento metri, è arrotondato alla base e, elevandosi, assume una caratteristica forma a punta. Parzialmente ignari di quello che avremmo dovuto affrontare, siamo partiti in direzione della punta del monte. Ovviamente ci aspettavamo di percorrere salite anche difficili, ma sicuramente non avevamo previsto di dover camminare senza seguire un sentiero e di dover scalare pareti di roccia quasi verticali. I giovani samburu procedevano senza alcuna difficoltà, mostrandoci la strada da percorrere e incitandoci a non mollare. Nonostante la difficoltà del percorso e la fatica, siamo riusciti tutti ad arrivare in cima e il panorama che ci siamo trovati di fronte ha annullato del tutto la stanchezza. La savana si estendeva a perdita d’occhio, tra gli alberi e gli arbusti erano visibili poche capanne, all’orizzonte si ergevano monti e colline che incorniciavano la visuale. Siamo rimasti tutti colpiti dalla natura incontaminata a cui ci siamo trovati di fronte, dall’aria pulita che stavamo respirando, dalla bellezza che stavamo potendo osservare. Dopo aver esplorato la sommità del monte ed esserci goduti il panorama da più prospettive, abbiamo cominciato la nostra discesa, difficile tanto quanto la salita. Dopo esserci raccapezzati tra rocce e terra, schivando rovi e rami di alberi, siamo tornati sul piano e abbiamo ripreso il pulmino per tornare alla chiesa di Naibor Keju, dove avremmo pranzato. Lì, infatti, ci attendeva la capra ormai cotta sulla brace. Dopo un iniziale momento di diffidenza, dovuto principalmente all’aver assistito al trattamento che era stato riservato all’animale prima della nostra partenza, quasi tutti hanno preso un pezzo di carne, mangiandola di gusto. Dopo il pranzo, abbiamo concluso la giornata pregando e cantando insieme ai giovani della tribù, salutandoci e ringraziandoci calorosamente per la giornata. Tornati a Maralal, abbiamo avuto un po’ di tempo per riposarci e riprenderci dalla difficile camminata. Dopo la faticosa giornata non vedevamo l’ora che arrivasse il momento della cena che, per quella sera, prevedeva pizza! Abbiamo tutti mangiato volentieri, apprezzato e ringraziato i nostri compagni di viaggio che l’avevano preparata per noi. Tuttavia, per un qualche ingrediente contaminato, parte del gruppo è stata colpita da una pesante intossicazione alimentare, che ha obbligato a letto per tutto il giorno successivo alcune persone e ha provocato malessere a gran parte del resto del gruppo. 

Domenica 24, nonostante alcuni fossero bloccati a Maralal, abbiamo raggiunto la chiesa di Kisima, per la celebrazione domenicale e per un’altra occasione speciale: l’inizio del cantiere della nuova chiesa di Kisima, che ospiterà quattrocento persone. Dopo la messa, celebrata dal Vescovo Marco e concelebrata da Padre Peter, Padre Marco, con un piccone, ha realizzato il primo solco nella terra, dando, così, ufficialmente inizio alla costruzione della nuova chiesa per la comunità. Subito dopo, siamo stati nella casa parrocchiale, dove ci è stato offerto il pranzo. Poco dopo, dato il malessere di molti di noi, siamo rientrati al Pastoral Centre di Maralal, dove abbiamo potuto riposarci per gran parte del pomeriggio. Nel tardo pomeriggio sono venuti a trovarci il dottore Daniele Sciuto, l’ostetrica Yasmin Genovese, sua moglie, con i due figli piccoli Sofia e Joshua. La famiglia vive a Maralal da diversi anni e Daniele e Yasmin lavorano all’ospedale governativo di Maralal. Insieme ci hanno raccontato la loro storia. I due si sono conosciuti a un master sulle malattie tropicali. Daniele, astigiano di origine e ortopedico di formazione, dopo aver passato un periodo a Maralal, ha deciso che avrebbe voluto lavorare e trascorrere la vita proprio lì. Yasmin, torinese d’origine e ostetrica di formazione, dopo aver svolto esperienza lavorative in vari paesi dell’Africa, ha raggiunto Daniele in Kenya. Daniele è fondatore dell’associazione no profit “Find the Cure”, nata nel 2006. Da quell’anno, utilizzando interamente i fondi delle donazioni ricevute, l’associazione ha realizzato scuole, orfanotrofi, dispensari, pozzi, mense e supportato programmi in campo educativo e sanitario, prima in India, poi in Centro America, per poi concentrarsi in Africa. Daniele e Yasmin svolgono le mansioni più disparate nell’ospedale di Maralal, uscendo anche dai confini della loro formazione. Ascoltare la loro storia e percepire l’amore nella loro missione è stato per tutti molto illuminante ed emozionante. Dopo la cena, ci siamo ritirati per riposarci in previsione della nostra ultima giornata a Maralal. 

Lunedì 25 abbiamo girato la città a piedi, visitando la cattedrale, la scuola lì vicino e l’ambulatorio medico in costruzione quasi ultimato. Nel nostro giro, abbiamo incontrato Yasmin, che ci ha invitati a passare un po’ di tempo a casa sua, nel suo giardino, offrendoci tè, caffè e chai. Per il pranzo siamo tornati al Pastoral Centre e nel pomeriggio siamo tornati in town con il pulmino. Abbiamo visitato il Maria Mfariji Home, un orfanotrofio gestito dalle suore della Carità, le suore di Madre Teresa di Calcutta, che si recò proprio a Maralal per fondarlo. Adesso è gestito da otto suore e ospita una trentina di bambini, di cui il più piccolo ha un mese. Lì abbiamo conosciuto le suore, i bambini e abbiamo giocato con loro. Dopo, siamo tornati al Pastoral Centre, dove abbiamo cominciato a prepararci per la partenza del giorno successivo. In serata, abbiamo cenato con Daniele, Yasmin e i loro bambini, in compagnia anche del padre missionario della Consolata Virgilio Pante, Vescovo emerito della Diocesi di Maralal, che ci ha raccontato la sua storia e la sua esperienza in Kenya. Giunto in Africa negli anni Settanta, Padre Virgilio si è spostato in diverse parrocchie del Kenya. Nel 1996 venne nominato vice-superiore dei Missionari della Consolata in Kenya e Uganda, per essere poi nominato primo Vescovo della Diocesi di Maralal nel 2001. Come stemma rappresentativo del suo programma pastorale di riconciliazione tra le tribù del territorio, Padre Virgilio scelse l’immagine di un leone accanto a un agnello, come da Isaia 11, 6. Nonostante la diffidenza iniziale (tutti sanno che i leoni mangiano gli agnelli), le tribù si ricredettero e accettarono di collaborare con il Vescovo dopo aver sentito la notizia che, nella Riserva nazionale Samburu, una leonessa aveva adottato una piccola antilope. Dopo aver scoperto il fatto, le tribù dei Samburu, Turkana e Pokot si impegnarono nella pace, consci del fatto che gli animali salvatici avevano dato un grande esempio: “Con Dio tutto è possibile”. Nel luglio del 2022, Padre Virgilio rinunciò al governo pastorale della Diocesi di Maralal, avendo raggiunto i limiti di età. Dopo la fine del suo ministero, continua comunque a vivere in Africa e rimane attivo al servizio della Chiesa in Kenya. Dopo aver salutato gli ospiti e ringraziato le persone del Pastoral Centre che ci avevano ospitato si erano presi cura di noi nei giorni precedenti, ci siamo ritirati, dal momento che il giorno successivo saremmo dovuti partire di buon mattino. 

Martedì 26 agosto, infatti, abbiamo lasciato Maralal intorno alle cinque del mattino, viaggiando verso Nairobi. Speravamo, nella prima parte del viaggio, di poter vedere gli elefanti, che tendenzialmente vagano nelle prime ore del mattino. Dopo aver percorso qualche chilometro con il matatu, il nostro autista Peter ha notato qualche elefante che si muoveva lentamente tra gli alberi e gli arbusti a non troppa distanza dalla strada. Osservando gli enormi mammiferi che si nutrivano dagli alberi con l’alba sulla savana sullo sfondo, abbiamo goduto di uno spettacolo della natura meraviglioso, a cui tanto speravamo di poter assistere, ma che non avevamo mai immaginato prima. Abbiamo proseguito il nostro viaggio, avendo l’occasione di vedere altri elefanti, adulti e cuccioli, ai lati della strada. Dopo un paio d’ore di viaggio, ci siamo fermati nelle zone di Nyahururu per fare colazione. Abbiamo, poi, proseguito per poco, per poi fermarci nuovamente sull’equatore. Lì, un anziano signore di nome Peter ci ha mostrato, attraverso un piccolo esperimento, come a nord e a sud dell’equatore, l’acqua giri in direzioni opposte. Abbiamo proseguito il viaggio, ci siamo fermati per il pranzo in un’area di servizio, abbiamo ripreso, per poi fermarci un’ultima volta a godere della vista sulla Rift Valley. Siamo arrivati a Nairobi intorno alle cinque del pomeriggio e abbiamo passato le nostre ultime ore in Kenya nella casa parrocchiale di Tassia, dove tutto era cominciato. Abbiamo rivisto, ringraziato e salutato Don Paolo e Padre Michael, abbiamo cenato e in tarda serata abbiamo preso il pulmino, per l’ultima volta, per andare all’aeroporto. Dopo numerosi controlli e attese, abbiamo preso l’aereo diretto ad Istanbul intorno alle quattro del mattino, per arrivare in Turchia verso le dieci. Dopo qualche ora di scalo, ci siamo imbarcati sull’ultimo aereo per Torino alle quattro del pomeriggio, per giungere, finalmente, in Italia intorno alle sei del pomeriggio. Prima di andare a casa con le nostre famiglie, ci siamo salutati caldamente, ci siamo ringraziati a vicenda, grati di aver potuto vivere un’esperienza così ricca e autentica insieme. 

Due giorni prima del nostro ritorno a casa, durante l’omelia dell’ultima messa a Maralal, il Vescovo Marco, sulla base delle letture del giorno, aveva tirato un po’ le somme del nostro viaggio e della nostra esperienza. Durante il salmo, avevamo ripetuto insieme “Il Signore ama il suo popolo”. Ha detto Padre Marco: “Tutti i popoli della terra sono Popolo di Dio. Il progetto di Dio della creazione del Mondo Nuovo non arriverà a compimento fino a che tutti i popoli della terra non si renderanno conto di essere amati da Dio. Missione significa incontrare i popoli per rendere loro noto che sono amati da Dio, che è anche il senso stesso della vita cristiana: rendere visibile che ogni persona è amata da Dio. E noi abbiamo tentato di fare questo in questi giorni”. La seconda lettura, dalla prima lettera di San Paolo ai Tessalonicesi, esaltava la fede operosa, la fatica della carità e la fermezza della speranza della comunità dei Tessalonicesi, evidenziando come il loro esempio di conversione e la potenza dello Spirito Santo avessero diffuso il Vangelo. Ha detto il Vescovo: “In questi giorni abbiamo chiaramente conosciuto l’operosità della fede di questo popolo e ne siamo rimasti stupiti; abbiamo indubbiamente notato la fatica della carità, ma, ancora di più, abbiamo conosciuto la fermezza della speranza di questo popolo: nonostante la situazione difficile in cui vivono, tutte le persone che incontri ti dicono che Dio c’è”. Infine, il Vangelo del giorno, tratto da Matteo, riportava le parole di Gesù contro gli scribi e i farisei ipocriti, denunciando il loro impedire agli altri l’accesso al Regno dei Cieli e la loro falsa religiosità nel fare i giuramenti. Ha detto Padre Marco: “La fede non è qualcosa che deve diventare un carico, un qualcosa che soffoca la vita, ma la fede ci deve aprire alla carità, all’amore dei fratelli, alla consapevolezza di essere amati da Dio”. Ha concluso il Vescovo Marco: “Noi siamo chiamati ad annunciare questo Dio, senza giudicare e imporre un peso agli altri. Dio ama tutti, vuole tutti, ma proprio tutti. La fede è gioia, non è peso, non è giudizio, è una porta aperta”. 

Alessia Volpicelli