Astigiana classe 1974, trasferitasi a Torino dopo gli studi superiori, Francesca Valente è tornata a casa sabato per parlare del suo pluripremiato “Altro nulla da segnalare” con Vittoria Dezzani alla Piccola Libreria Indipendente. 

Il libro ha vinto il premio “Calvino 2021” all’unanimità, cosa che succede di rado, e l’anno successivo il Campiello Opera Prima. Ibrido tra romanzo, raccolta di ritratti e saggio, il libro intreccia storie di pazienti, psichiatri e infermieri di uno dei primi “reparti aperti” all’ospedale Mauriziano di Torino dopo la legge 180, o “legge Basaglia”, che chiuse i manicomi.

Atomi di quotidianità e scorci di vita si mischiano con ironia e leggerezza, prendendo le mosse dai “rapportini” dello psichiatra Luciano Sorrentino e dei suoi infermieri. Storie strazianti nella loro realtà, che però non cadono mai nel tragico, rendendosi particolarmente necessarie in questo periodo post-pandemico in cui finalmente di salute mentale si parla.

Da dove è nata la decisione di dare al libro questa forma ibrida?

“Sono storie vere intrecciate con elementi di fantasia. Quindi l’opera è a metà fra documento e finzione, non uno Zibaldone di casi clinici. Volevo valorizzare al meglio il materiale affidatomi, composto da note e referti medici, unito ai racconti dello psichiatra Luciano Sorrentino, che all’epoca aveva meno di 30 anni e non aveva sovrastrutture né paure. Ho deciso di dare questa forma al libro perché l’idea di mescolare realtà e narrativa si prestava a trattare la tematica della follia, un luogo dove i confini sono sempre molto labili e dove ciò che conta non è il vero o il falso, ma solamente il vissuto delle persone”.

Chi sono i protagonisti del suo libro?

“Al centro ci sono le storie struggenti dei “Paz”, diminutivo dalla doppia accezione di paziente e pazzo: donne e uomini che si sono ritrovati improvvisamente a dover vivere in un mondo che non sapevano più abitare dopo la legge 180, che proponeva un diverso approccio alla cura delle malattie mentali. Tra di loro ci sono anche le storie di tanti infermieri, come tanti Sancho Panza. Persone che non avevano studiato ma portavano un’umanità naturale, semplice, empatica, pragmatica. Sono ancorati alla vita e non alle teorie. Sono loro soprattutto ad avvertire l’esigenza di raccontare, nei rapportini, anche per sfogarsi. A volte si sente la voce del doppio autore, che ingigantisce un po’ la storia, o fa un commento divertito e ironico, ma sempre affettuoso. Il reparto ne esce come un crogiuolo di creature folli, alcune delle quali erano ricoverate e alcune no, come i parenti che vanno in visita, ma per puro caso. Per dirlo con Montale: “Non si nasconde fuori/dal mondo chi lo salva e non lo sa./È uno come noi, non dei migliori”.

Ha conosciuto di persona alcuni dei protagonisti?

“Solo Luciano Sorrentino, con cui è nata una grande amicizia, che mi ha affidato i rapportini pensando inizialmente più a un reportage. Poi è stato lui a parlarmi di collaboratori come Italo Pent, che è stato uno dei pilastri del “reparto aperto”. Italo ha la quinta elementare e per tutta la sua vita ha affiancato all’attività di infermiere quella di contadino. Nei suoi racconti fa un mucchio di errori di grammatica, ma la saggezza che trasmette è pietrificante. Ci sono poi episodi assurdi ma veri, come quello avvenuto alle Officine Fenoglio della Fiat di via Cuneo, dove un tale Salvatore camminava tutto il giorno ridacchiando e fingendo di guidare una motocicletta. Il dottore arriva e lo abbraccia, “continuando a dirgli parole che lo tranquillizzassero senza sembrare troppo fesserie”. Oppure quando arriva il Papa e le signore del reparto, che si azzuffavano di continuo, si mettono d’accordo per sistemarsi e andare a vederlo. Poi finiranno per andare a vivere insieme”.

L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 17 marzo 2023

Elena Fassio