“Uno scrittore dannatamente simpatico!”. Esordisce così Valerio Binasco, attore e regista del “Filippo” portato in scena ieri ad Asti, parlando di Vittorio Alfieri.

Affiancato da Franco Vazzoler e Alberto Beniscelli dell’Università di Genova e dal direttore del Centro Studi Alfieriani Carla Forno nel ridotto del teatro Alfieri, martedì pomeriggio prima della rappresentazione, Binasco ha spiegato la scelta di portare in scena proprio “Filippo”.

“Ci sono autori che riesco a visualizzare chiaramente, mentre li leggo. “Filippo” mi ha colpito, mi ha sorprese, per questa ispirazione di potenza realistica, per la lingua così vicina alle espressioni comune. E’ la tragedia su cui i critici e lo stesso Alfieri si sono accaniti di più, specie per i versi complicati e annodati che la caratterizzano. Le stesse ragioni per cui Alfieri la odiava sono quelle che me l’hanno fatta amare: Alfieri preferiva la mitologia, così chiaramente riscontrabile nel “Saul” ad esempio. Filippo, re di Spagna, gli appariva troppo vicino, storicamente collocabile e ben presente. Ma in verità nel testo la corte di Spagna e le vicende storiche sono lasciate in secondo piano, sfrondando tutto il “temporaneo” quello che resta è proprio il mito, le tematiche ancestrali, il disastro dei rapporti familiari, esattamente come nelle tragedie greche. Quando lo lessi a 15 anni ci vedevo solo la maledizione scolastica da scontare, ma poco tempo dopo mi resi conto che nella grande letteratura c’è una grandissima forza, è una potente via di fuga, forse anche più del rock and roll”.

Di cosa parla il vostro “Filippo”?

“Soprattutto dello scontro padre-figlio. Il mito di Saturno, la distruzione di tutto ciò che è giovane e sta crescendo. La prevalenza dell’elemento senex di Hillman. Non ci sono cenni alla Spagna del Cinquecento, all’Escorial: noi affrontiamo il nocciolo violento di una relazione patologica, l’ambiguità tragica dei rapporti familiari, la convivenza sanguinosa dell’amore e dell’odio.
E poi c’è il dato politico. Tutti pensano che il re sia un farabutto, ma Filippo regna per decreto divino, quindi si presagisce che il sistema regge sulla menzogna. Il disvelamento di una realtà politicamente così oscena in Alfieri, che è un italiano, porta al martirio e in definitiva al suicidio. Francesi o inglesi avrebbero avuto un esito rivoluzionario”.

Qual è stato l’approccio con il testo?

“Abbiamo ascoltato le performance di Gassman, Lavia, Volonté: ma siamo attori contemporanei, possediamo un’energia contemporanea. Lavoriamo sul sentimento, sul non detto, non sulla parola. Abbiamo cercato di far capire le emozioni, piuttosto arrivando a rallentare la dizione. E’ un problema di comprensibilità di cui ho avuto sentore ascoltando Racine in Francia: pur conoscendo il testo non capivo nulla di quello che gli attori dicevano, eppure allo stesso momento capivo tutto.
Quella di Alfieri è una scrittura strana e invincibile, che soggioga. E’ una lingua sana, piena di energia e di vitalità: abbiamo grandi responsabilità verso il testo originale”.

Marianna Natale