Architetto, urbanista e teorico dell’architettura, Carlo Ratti ha origini astigiane. Dopo essersi laureato al Politecnico di Torino e all’Ecole Nationale des Ponts et Chaussées di Parigi, oggi è docente di “Practice of Urban Technologies and Planning” al Mit, Massachusetts Institute of Technology di Boston, e al Politecnico di Milano. 

Al Mit dirige un gruppo di ricerca che studia l’impatto delle nuove tecnologie sui modi di vivere le città.  È coautore di oltre 750 pubblicazioni ed è il socio fondatore dello studio internazionale di progettazione “Carlo Ratti Associati”, con sedi a Torino, Londra e New York. Nel 2012 la rivista “Wired” lo ha inserito tra le 50 persone che cambieranno il mondo.

Professor Ratti, per la sua esperienza cosa si intende con l’espressione “americanizzazione delle città?” 

“Conosco il termine che si usa talvolta in Italia in campo sociologico e che indica l’influenza culturale degli Stati Uniti su altri Paesi del mondo: forma di “soft power” positiva per alcuni, forza opprimente per i più antiamericani. Tuttavia, non sono del tutto sicuro che potremmo trasporre quella dinamica in campo urbano in maniera lineare. Vivo tra Italia e Stati Uniti da un paio di decenni e posso assicurare che, al netto delle differenze storiche e di conformazione tra le città americane e quelle europee, gli scambi tra i due modelli di sviluppo urbano sono bidirezionali. 

Un solo esempio: alcune parti degli Stati Uniti stanno finalmente imbracciando la rivoluzione della “mobilità dolce”, fatta di zone pedonali e di mezzi di trasporto alternativi all’auto, per la quale l’Europa è sicuramente più all’avanguardia. Inoltre non escluderei che, tra gli statunitensi che abbiano visitato Asti, ci sia chi in cuor suo aspirerebbe a una “piemontesizzazione” degli Stati Uniti!”

Possiamo dire che un fenomeno del genere interessi anche Asti?

“Proverei a suggerire un cambio semantico: invece di “americanizzazione” – termine forse più adatto ai tempi della Guerra Fredda che al presente – potremmo parlare di un rischio di “omologazione” delle nostre città. Un fenomeno le cui evidenze nello spazio urbano erano già state sottolineate dal filosofo francese Paul Ricoeur negli anni Sessanta del secolo scorso: “Ovunque nel mondo si trovano gli stessi film scadenti, le stesse macchine, le stesse atrocità di plastica o di alluminio, lo stesso stravolgimento del linguaggio da parte della propaganda”. Credo però che in questo contesto città come Asti abbiano una carta da giocarsi. Possono farci intravedere un paradigma di sviluppo alternativo: fatto di qualità della vita e di capacità di generare prodotti in grado di competere a livello globale. Quello che chiamerei il lato buono della globalizzazione. Ovvero la possibilità di essere parte del mercato internazionale, senza subirne conseguenze come spersonalizzazione o sgretolamento dei legami sociali”.

Questo fenomeno riguarda anche altre città italiane?

“Direi che si tratta di una sfida per quasi tutte le città italiane, in gran parte di taglia piccola o piccolissima”. 

L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 15 marzo 2024

Marianna Natale