Svelare “la possibilità di incontrare Dio fra le piaghe oscure della storia, dove lui si nasconde e si fa trovare”: secondo questa ricerca di manifestazione e di incontro si declinano le pagine del libro del vescovo Marco Prastaro, “Dove dio ha il nome di donna”, edito per Editrice Missionaria Italiana. Un racconto vivo e dettagliato sulla sua esperienza missionaria di 13 anni in Kenya a Lodokejek, nella terra dei pastori Samburu. Ricordi di vita si rivelano nel solco del dialogo e del più profondo incontro con Dio: un Dio, Nkai, che in lingua samburu è al femminile. Vere protagoniste di queste pagine intense di vita, di questo viaggio “nella memoria del cuore”, sono le donne perché, come scrive l’autore, “Sono abitate da una forza di vita sempre sorprendente […]. Le donne, quelle che ho incontrato in Kenya, sono innervate da una forza inarrestabile che le rende capaci di superare le più grandi ingiustizie e i dolori più profondi. Questa vitalità le rende capaci di rialzarsi e di continuare a vivere con una determinazione sempre nuova, perché anche nella disperazione la vita possa sempre prevalere sulla morte”.  Storie di speranza e storie di fallimenti, momenti di gioia e momenti di disperazione: tra le pagine trapelano emozioni e suggestioni contrastanti in cui sempre la fede si rivela come eco potente che suscita interrogativi per cui indagare, senza sosta, una risposta. La materia incandescente che attraversa la narrazione è la presenza di Dio, percepita in ogni momento, nella sua apparente assenza e nella sua più viva manifestazione: “Dio è presente.  È lì nel mezzo di quegli avvenimenti, quando l’umanità vive e soffre, dove l’umanità pecca e ama, ovunque l’umanità si perda e si ritrovi. Perché è proprio lì il posto di Dio, dove a lui piace stare e dove ama darci appuntamento”. 

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro? 

“Ho deciso di scriverlo dopo i 10 anni del mio rientro dal Kenya. Quando una esperienza è sedimentata, è bello poterla condividere e ora c’è anche quel distacco emotivo e affettivo che rende più lucidi nel racconto. 

L’idea iniziale era di condividere solo delle storie, poi invece mi è stato suggerito di aggiungere anche cosa quelle esperienze mi hanno insegnato. È nato dunque un duplice desiderio: raccontare avvenimenti che mi hanno segnato e soprattutto condividere come mi sono stati di grande insegnamento”.  

Il dono più significativo dell’esperienza missionaria? 

“Lo riassumo sempre così: aver potuto conoscere Dio da un altro punto di vista. C’è ovviamente l’aspetto umano dell’esperienza missionaria, ma alla fine direi che aver incontrato e conosciuto Dio da più diverse angolazioni è la cosa più grande”. 

C’è stato un momento tra questi racconti in cui maggiormente ha percepito la presenza di Dio?

“In Kenya ho incontrato Dio in tanti modi diversi, e in ogni momento lui era sempre presente. 

Ma un ricordo particolare che racconto nella storia “Una donna, la croce e quella scoperta nella fede”, ha significato per me una svolta: dopo il funerale della figlia del catechista Jacob Naserian, ho condiviso con una donna i miei la mia rabbia e il mio risentimento, anche verso Dio, per quella sofferenza.  Dio mi pareva così indifferente e lontano. La signora, una donna semplice e analfabeta, mi ha ascoltato con pazienza e poi mi ha detto con semplicità: “Marco, ti sbagli. Va’ in chiesa e guarda la croce, vedrai che il Signore ti risponde”. 

Sono dunque andato in chiesa con le mie ragioni e rivendicazioni e ho iniziato a guardare la croce, ma subito non ne sono venuto a capo. Per diverso tempo ho continuato a farlo fino a che, un giorno, ho capito a cosa si riferisse la donna.  Finalmente, avevo messo da parte la mia rabbia, avevo cominciato a guardare realmente Gesù in croce e avevo scoperto qualcosa che mi accompagnava da sempre: ho visto Gesù in croce che soffriva, esattamente come le persone di cui gli parlavo, come coloro che io volevo difendere e salvare. 

Lui soffriva come loro, e taceva. Ho capito il significato della croce: riconoscere che non esiste nessun male e nessuna ingiustizia che il Signore non conosca perché anche Lui ne ha fatto esperienza sulla sua pelle. Un altro momento che ricordo con grande intensità risale a quando molte sere al rientro a casa da una giornata faticosa ammiravo la bellezza del paesaggio africano al tramonto. Ricordo l’intensità di quei colori e come lo sguardo si spingesse al di là dell’orizzonte. Quella bellezza mi ridava speranza: era la bellezza di Dio, della sua immensità e del suo silenzio, del suo intrecciarsi con la vita e la morte degli uomini, del suo prometterci vita nuova. La promessa di un’alba dopo il tramonto”. 

L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 23 aprile 2021

 Federica Bassignana