Ci sono pastori di pecore e pastori di anime: mons. Virgilio Pante è chiamato il “vescovo selvaggio” e con “l’odore di pecora”, perché la sua vita è indissolubilmente intrecciata a quella dei pastori Samburu. Un esempio di vocazione che getta luce sulla determinazione missionaria di vivere tra la gente e per la gente.

Quando è iniziata la sua missione in Kenya?

“Il 10 settembre del 1972, avevo 26 anni ed ero missionario della Consolata. Da allora vivo in Kenya, tra i pastori Samburu, con l’eccezione di alcuni anni in cui ho vissuto tra Londra e Dublino per fare animazione missionaria. Ho viaggiato molto in Kenya, vivendo in luoghi diversi e imparando lingue diverse, poi ho costruito il Seminario del Buon Pastore per rendere i pastori di pecore, pastori di anime: nell’87 abbiamo ordinato il primo prete Samburu. Sono stato anche Vice-superiore Regionale a Nairobi e nel 2001, quando è stata creata la nuova diocesi di Maralal – che conta 350 mila abitanti – mi hanno ordinato vescovo. Ora ho 75 anni e ho chiesto le dimissioni al papa, che ha accettato, ma rimarrò vescovo di Maralal finché non ci sarà un successore”. 

Che cosa farà dopo?

“Resterò in Kenya. È lì che voglio essere seppellito come ha fatto il mio predecessore, mons. Ambrogio Ravasi, morto in Kenya con la sua gente che continua a pregare per lui. Dopo 50 anni in Africa, ti senti più africano che italiano”. 

È cambiato il Kenya in tutti questi anni?

“Si è sviluppato economicamente ma è peggiorato il fenomeno di battaglie tribali: i pastori si contendono i bestiami, quando ero arrivato però usavano frecce e lance, mentre ora tutti hanno un mitra. Per il mio il mio programma pastorale di riconciliazione fra le tribù del suo territorio ho scelto la frase “il ministero della riconciliazione” e lo stemma di un leone con accanto un agnello, prendendo spunto da Isaia 11,6. L’immagine è diventata realtà tre mesi dopo la mia ordinazione di vescovo: una leonessa aveva adottato un piccolo di gazzella nel parco nazionale dei Samburu”.

Come vive la quotidianità della sua missione?

“Sto poco in ufficio: mi chiamano il “vescovo selvaggio”. Giro molto tra le parrocchie, solitamente mi spostavo sempre in moto ma ora, con l’età che avanza, anche in Jeep. Finché sono in salute continuerò a spostarmi per avere il contatto con le vite della gente e per conoscerle da vicino. Mi piace vedere le loro realtà e stare in mezzo a loro perché il pastore deve avere odore delle sue pecore”.

L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 18 giugno 2021

Federica Bassignana