Mentre gli occhi di tutto il mondo sono puntati sul dramma che si sta consumando in Afghanistan, dove i talebani hanno ripreso il potere dopo vent’anni reimponendo la legge islamica fondamentalista, mentre le donne vengono ridotte al silenzio, chiuse in casa e minacciate, mentre all’aeroporto di Kabul una marea umana si accalca per riuscire a lasciare il Paese, o almeno per affidare nelle mani dei militari i propri figli, anche ad Asti arriva uno spettacolo che racconta una piccola parte della storia e della cultura di questo Paese.
Si tratta del monologo “Le vie del Buddha: il Ground Zero d’Oriente nella Valle degli uomini che pregano verso occidente”, nel quale l’attore molisano Stefano Sabelli, fondatore e direttore del Teatro del Loto, racconta l’esperienza vissuta in prima persona nel 2001 a Bamiyan, dove i talebani distrussero i due grandiosi Buddha della montagna. Il racconto è arricchito dalle foto scattate durante il viaggio e dalle musiche originali dal vivo di Giuseppe Spedino Moffa, cantautore e polistrumentista, caposcuola delle sonorità etniche. Lo spettacolo andrà in scena domenica 29 agosto a San Martino Alfieri.
Com’è arrivato in Afghanistan?
A dicembre 2001, tre mesi dopo l’attentato dell’11 settembre, ho partecipato con Vittorio Sgarbi (allora sottosegretario ai Beni culturali) e Alain Elkan alla prima missione culturale del MIBAC in Afghanistan, promossa in sostegno del nuovo governo Karzai.
Eravamo il primo gruppo di occidentali a tornare nella magnifica Valle di Bamiyan dopo la liberazione dall’occupazione talebana. Ci trovammo di fronte uno dei più straordinari siti archeologici mondiali completamente annientato dai seguaci del Mullah Omar, il capo dei talebani che, come poi si seppe, sfuggì in moto alla cattura da parte del contingente americano. Lo sgomento che provammo è ancora vivido nei miei ricordi. La ferocia usata contro i grandi Buddha della montagna aveva lasciato di quelle magnifiche statue solo pochi frammenti, che giacevano ai piedi delle maestose nicchie scavate nella roccia, più simili ormai a vuoti sarcofagi verticali.
Qual era la storia dei due grandi Buddha?
La valle di Bamiyan, a circa 230 chilometri dalla capitale afghana Kabul, si trova a 2500 metri d’altezza sul percorso della Via della seta, un itinerario mercantile che univa la Cina con l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Europa. Dal II secolo fino all’invasione islamica del IX secolo, fu un florido centro religioso, filosofico e artistico, con centinaia di monasteri buddisti.
Qui le popolazioni Kushan ed Eftalita costruirono, tra il III e il V secolo, all’apice dei loro imperi, le due statue del Buddha alte rispettivamente 38 e 53 metri. I corpi principali delle statue furono sbozzati direttamente nella montagna, mentre i dettagli furono modellati con fango misto a paglia e poi ricoperti di stucco. Questa copertura, andata quasi completamente perduta già da tempo a causa degli agenti atmosferici, era originariamente dipinta per enfatizzare le espressioni del viso, le mani e le pieghe delle vesti, con quella calma aggraziata tipica delle rappresentazioni buddiste.
I Buddha di Bamiyan non erano solo grandiose testimonianze artistiche, ma rappresentavano un tassello imprescindibile della Storia dell’Umanità, della tecnica, dell’ingegneria, della religione. Per questo nel 2003 sono stati inseriti, insieme all’intera zona archeologica circostante, nella lista dei Patrimoni mondiali dell’umanità dell’Unesco, che si è impegnato, insieme ad alcune nazioni, per la ricostruzione delle due statue.
Cosa può dire oggi un monologo artistico della straziante situazione afgana?
Il tema della distruzione di importanti siti archeologici da parte del fondamentalismo islamico è purtroppo tornato attuale negli ultimi anni, da quando la terribile propaganda dell’Isis ha cominciato a diffondere nuovi filmati di distruzione di siti e opere d’arte, come Petra e Palmira.
Vent’anni fa, quando ho visto per la prima volta i panorami mozzafiato dell’Hindukush, a bordo di un elicottero malmesso e traballante, sono rimasto quasi stordito dal crogiolo di storia che si intreccia in quelle valli, da Alessandro Magno alle popolazioni indo sassanidi. Altrettanto stordito mi lasciò il terrore impresso sul volto di un giovane Azara, superstite di un popolo fiero e pacifico, discendente dai cavalieri mongoli di Gengis Kahn, che per secoli aveva vissuto in quella valle ed era stato appena sterminato dai taliban. Quel ragazzo mi aveva accompagnato nelle grotte laterali che erano piccoli e bellissimi eremi dei monaci, dai quali i taliban avevano fatto precipitare più di 50mila Azara. Nel 2001 ero pieno di speranza in una nuova era di scolarizzazione, diritti e cultura per l’Afghanistan, ma oggi vedo nuovamente lo stesso terrore nei telegiornali.
Ora i talebani hanno messo in atto una sorta di “rebranding” di facciata, per essere più presentabili agli occhi dei governi occidentali, ma non possiamo chiudere gli occhi davanti ai fatti, cioè un vero e proprio genocidio culturale. Spero che il mio monologo, per quanto ironico in alcuni punti, possa far riflettere il pubblico su questo punto.
Elena Fassio