Matteo Rossi, 34 anni, originario di Oristano, lavora per Emergency ormai da 6 anni. Dopo la laurea in Infermieristica conseguita all’Università di Asti, iniziò a lavorare nell’ospedale cittadino, dove rimase fino al 2015, prima di intraprendere la sua attività nell’associazione umanitaria, a seguito di una prima esperienza di volontariato in Sierra Leone nel 2014 come infermiere di terapia intensiva in occasione dell’epidemia di ebola. “Durante quell’esperienza – ricorda Matteo – capii che Emergency faceva per me, perché rispecchiava esattamente la concezione sulla sanità che avevo sempre avuto, libera, gratuita e accessibile a tutti. Tornai in Italia e dopo tre mesi iniziai la mia collaborazione continua con loro, prima in Libia, poi in Iraq, in Yemen, in Sudan e in Afghanistan”. Nel corso degli anni, Matteo è passato da infermiere a coordinatore delle strutture di primo intervento fino al ruolo di responsabile della formazione di tutte le professioni sanitarie. In questi giorni si trova nella sua Oristano ed è da qui che sta seguendo l’evolversi della crisi afghana.
Qual è stato l’impegno di Emergency in Afghanistan in questi anni?
“Il programma portato avanti dall’associazione umanitaria è nato nel 1998, con la costruzione del primo ospedale a Panjshir per alleviare le sofferenze delle vittime di guerra, secondo la filosofia di Gino Strada di portare cure gratuite in tutti gli angoli del mondo. Ad oggi sono tre gli ospedali, “spaventosamente belli” per dirla con le parole di Gino, di cui due specializzati sulle vittime di guerra, mentre il terzo multifunzionale, per operazioni chirurgiche di vario genere, con reparti di pediatria e maternità: qui si fanno, per intenderci, circa 500 parti al mese. In vent’anni sono stati curati circa 71 mila feriti di guerra, di cui il 30 per cento bambini sotto i 14 anni. Nel corso degli anni sono nati anche 44 centri di pronto intervento di emergenza, sparsi su tutto il territorio. Si tratta di un programma bellissimo che ha portato all’aumento della sopravvivenza e all’accesso alle cure per un numero sempre più alto di persone. Riuscire a portare in ospedale viva una persona con due proiettili in corpo, una gamba amputata, in mezzo alla guerriglia, su strade dissestate e con ambulanze che non sono come quelle che immaginiamo noi, è qualcosa di ammirevole e lodevole. E non lo dico per autocompiacimento, ma per sincero stupore, soprattutto in un luogo in cui quando ci saluta, dopo aver detto “ci vediamo domani”, si aggiunge sempre “se siamo ancora vivi”. E non per modo di dire.”
Come stai vivendo le notizie che arrivano dall’Afghanistan?
“E’ una situazione che ha colto tutti impreparati, afghani compresi. Nessuno riesce a capacitarsi di come sia stata possibile un’avanzata di questa portata e apparentemente facile in così poco tempo. E’ difficile commentare ora, a caldo, ciò che sta accadendo. I prossimi mesi saranno cruciali per capire come evolverà la situazione, soprattutto a livello sociale, perché non si tratta “solo” di una questione di controllo del territorio, ma anche della popolazione civile. La condizione ora è troppo precaria per fare valutazioni, ma nel corso di questi anni la società è molto cambiata e bisognerà vedere come risponderà.”
Quali sono stati i cambiamenti più significativi?
“Innanzi tutto negli anni l’istruzione, soprattutto femminile, è molto migliorata, ovviamente con differenze da un territorio all’altro. In generale si è diffusa una voglia forte di crescere, istruirsi, impegnarsi per i diritti. Ci sono molte più donne laureate e che lavorano, che parlano inglese; a Kabul pochissime ragazze portano il burqa e non è cosa da poco se ci si sforza di riflettere secondo i dettami di una cultura completamente diversa da quella occidentale. Sono sempre più numerose le attiviste che si battono per l’ottenimento non solo dei diritti fondamentali.”
L’intervista completa sul numero della Gazzetta d’Asti in edicola da venerdì 27 luglio 2021
Laura Avidano